Il disarmo dei curdi del PKK ed i rapporti con la Turchia di Erdoğan
Arianne Ghersi intervista Marco Ansaldo
Pochi mesi fa Öcalan, dopo 26 anni di prigionia, ha dichiarato dal carcere: «L’esistenza dei curdi è stata riconosciuta. Pertanto, l’obiettivo di base è stato raggiunto. In questo senso, il PKK ha fatto il suo tempo».
Il PKK ha perso il suo leader o ha raggiunto davvero l’obiettivo?
L’addio alle armi del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) è un momento storico per la Turchia. Se rispettato, è un accordo che mette fine a più di quarant’anni di vera e propria guerra all’interno del paese, con 50 mila morti. Un peso enorme che libera la Turchia, e la stessa popolazione curda, da un fardello insostenibile alla luce delle ambizioni del paese.
L’Italia ricorda bene Abdullah Ocalan perché, a cavallo fra il 1998 e il 1999, il leader del PKK scelse Roma come suo rifugio temporaneo, dove venne arrestato e passò due mesi. Venne portato in una villa all’Infernetto di Ostia dove ebbi la possibilità di intervistarlo di persona, e in seguito altre tre volte, prima della sua fuga in Kenya dove fu infine catturato dalle teste di cuoio turche.
Da allora è rimasto confinato nella piccola isola-prigione di Imrali, nel Mare di Marmara, quasi del tutto isolato dal mondo se non per rare visite dei suoi avvocati. La trattativa fatta di recente con il governo di Ankara, se rispettata da entrambe le parti, va in una direzione di pace e di sviluppo per la Turchia, per i curdi, e per l’intera regione circostante.
Il PKK ha annunciato il ritiro totale delle proprie forze dalla Turchia, trasferendole nel Kurdistan iracheno, in linea con l’appello di Abdullah Öcalan alla smobilitazione. La mossa segna una nuova fase nel processo di pace con Ankara e punta alla transizione del movimento. Si tramuterà effettivamente in un partito politico?
Da alcuni decenni i curdi hanno formato i loro partiti, spesso però poi chiusi dalle autorità ufficiali che li accusavano di terrorismo. Nelle elezioni più recenti il Partito democratico dei popoli ha ottenuto ampi riconoscimenti nelle urne, attestandosi intorno al 10 per cento ed entrando nel Parlamento di Ankara. Il processo di pace non potrà che ampliare la proposta democratica ed elettorale dei curdi, che oggi si riconoscono nel partito DEM.
Erdoğan che ruolo ha avuto in questa “metamorfosi”?
Anche in questa fase Erdoğan sta mostrando una scaltrezza e una lungimiranza che pochi gli avrebbero riconosciuto all’inizio del suo percorso politico. Ormai al potere da più di trent’anni (nel 1994 la sua elezione a sindaco di Istanbul) il presidente turco sta rivelando notevoli doti politiche anche sul piano internazionale.
Se i problemi della Turchia permangono in termini di piena democrazia e di riconoscimento totale delle libertà di espressione (vedi la vicenda del suo oppositore Ekrem Imamoglu, attuale sindaco di Istanbul e leader dell’opposizione, tuttora in carcere, così come tanti altri avversari politici), oggi bisogna avere a che fare con una Turchia protagonista assoluta a livello geopolitico.
La mossa di Erdoğan, incredibilmente proposta e facilitata dal suo alleato di governo, il capo del Movimento di azione nazionalista, Devlet Bahceli, leader di un partito che si richiama ai Lupi grigi ultranazionalisti che attentarono alla vita di Papa Giovanni Paolo, il quale è andato a stringere la mano ai dirigenti del partito filo curdo, spiana la strada a una riconciliazione insperata.
È ipotizzabile che il Kurdistan iracheno si trasformi nell’effettiva “terra promessa” per i curdi? L’esclusione dalle recenti elezioni nella vicina Siria non è un segnale “negativo”?
Ho visitato tante volte sia l’Anatolia del sud est, cioè l’area curda della Turchia, che il Kurdistan iracheno, e fra le due zone non c’è paragone in termini di sviluppo.
Dopo la vittoria nel 2003 contro Saddam Hussein, i curdi iracheni hanno avuto la capacità di trasformare, fin da subito, la loro regione in un territorio di sviluppo economico e culturale formidabile, traendo forza dai copiosi proventi del petrolio estratto in quelle terre.
Adesso, con la prospettiva di un’intesa finalmente raggiunta, anche l’Anatolia del sud est può riscattarsi e puntare a liberare tutte quelle energie rimaste frenate e represse nei lunghi decenni di guerra dagli anni Ottanta ad oggi. L’auspicio ora è la liberazione del più importante leader democratico curdo, Selahattin Demirtas, uomo di grandi capacità politiche, rinchiuso dopo il golpe fallito contro Erdoğan nel 2016.
Diversa invece è la situazione in Siria, dove le milizie curde affini al PKK, le Ypg (Unità di protezione popolare) non hanno risposto alla consegna delle armi di Ocalan, e continuano perciò la loro battaglia contro il governo di Damasco, oggi sostenuto dalla Turchia, rifiutando l’integrazione con l’esercito siriano. Un nodo da affrontare e risolvere, se i curdi puntano a una loro eventuale forma federazione della loro intera etnia.




