NarrativaScienze Sociali e Umanistiche

Capitolo II

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9° Scaglione ‘86: un numero che significava che dovevi iniziare il servizio militare di leva a dicembre e saresti ritornato un anno dopo; l’anno, infatti, era diviso in 9-10 scaglioni che scandivano le partenze dell’italica gioventù. Un anno prima ti avevano fatto un’umiliante visita medica di tre giorni, per la quale sarebbero state necessarie forse tre ore, ma tant’è: attese, attese, interminabili attese, che culminavano con la temuta verifica del varicocele, nella quale in coda, nudo con altre decine di ragazzi, venivi palpato ai genitali da due sanitari abbrutiti dalla mansione, i massimi esperti della fertilità degli adolescenti di Italia.

Al termine ci chiedevano a quale corpo avremmo voluto essere destinati (termine che di per sé lasciava intendere che un’entità superiore e misteriosa avrebbe gestito il nostro destino); avevo visto un militare pieno di patacche con un basco amaranto al quale veniva tributato rispetto da parte degli altri soldati baschi neri: l’idea di saltare da un aereo mi spaventava, ma scrissi parà o San Marco.

La divinità oscura mi aveva destinato in Artiglieria, prima destinazione: la caserma addestramento reclute (CAR[1]) di Diano Castello. Mi rivedo in autobus per la Stazione di Genova Principe, intento ad osservare il riflesso della mia immagine nel finestrino, capelli rasatissimi (tagliati preventivamente): «Peccato, ma sembro proprio un paracadutista», dicevo a me stesso. Il ragazzo che arrivò in caserma era un atleta, due volte vice campione italiano di pallanuoto under 18, agonista in serie B, perito elettronico, di famiglia storicamente operaia, quindi allevato a pane, vino, selvaggina, comunismo e resistenza, in realtà un “miracolato”.

Un camion militare ci porta dalla stazione ferroviaria alla caserma dove ci accolgono i caporali istruttori che ci scortano alle camerate, tra due ali di “anziani” in ovazione: «Spine malefiche! Rospi! Non vi passa più!». Perfetto, guerriero, benvenuto nell’Esercito della Repubblica Italiana, tu non sei più niente, muto rassegnato e pompa.

Gli alloggi erano costituiti da una camerata enorme (con due file di letti a castello), che terminava con i servizi igienici drammaticamente sottodimensionati rispetto al numero degli utenti. Il camerone era così grande da non poter essere riscaldato, per cui, si dormiva con cappelli, vestiti con maglie e mutande di lana e la tuta ginnica in dotazione. La sveglia era data ovviamente tramite l’irruzione dei caporali, che urlando e percuotendo le brande con delle sbarre intonavano il famoso: «Giù dalle brande!».

Ciò che seguiva era la “reazione fisica”: alcuni minuti di corsa in piazzale, il tentativo di lavarsi e sbarbarsi, seguito dal confezionamento del famigerato “cubo”, ossia: ripiegare a metà il materasso, riporre le lenzuola piegate sopra e fasciare il tutto con le coperte. Così spiegata la cosa sembrerebbe una banalità, ma la difficoltà consisteva nel dare una forma squadrata all’insieme, appunto un cubo. Questo doveva rispettare particolari distanze fra le lenzuola e superare la prova del rimbalzo di una moneta sulla superficie. Inutile dire che il cubo doveva essere prodotto in pochissimo tempo.

Questa operazione rappresentava solo uno degli incubi che tormentavano i sonni del soldato: si andava dalla lunghezza della barba, che veniva controllata strofinando un cartoncino sul viso, fino alla pulizia degli anfibi, nei quali ci si doveva specchiare. La giornata proseguiva amabilmente tra marce, attese interminabili per andare in mensa ed angherie ed insulti di ogni tipo.

Ripenso alla telefonata della sera del primo giorno: «Pa’, un anno così non lo faccio, o scappo o mi ammazzo» e ora so che, fortunatamente, ci si abitua a tutto – tranne che agli stupidi! Il terzo giorno un mollusco mi si para davanti, mentre di notte mi lucidavo gli anfibi: «Spinamalefica, lucidami anche questi e poi fammi la branda». Sulle prime non capisco, poi il mollusco insiste e… termina il suo discorso in infermeria. A rapporto entrambi dal Comandante: sette giorni di consegna di rigore, il che significa un bonus di sette giorni in più di servizio militare oltre al termine normale; però, dato che la punizione è stata inflitta nel primo mese, in caso di buona condotta, può essere annullata. Grande inizio, guerriero!

Comincio a prendere le misure alle persone ed a comprendere come tutto sia una rappresentazione teatrale: vogliono un comportamento marziale? Eccomi, il super soldato. Alla fine mi divertivo un mondo in quella babele di dialetti e varia umanità proveniente da tutta l’Italia e di ogni estrazione sociale. Le assurdità della vita di caserma – un microcosmo di regole, consuetudini assolutamente uniche e particolari – si caratterizzavano anche nell’emergere di una piacevole sensazione di comunità. Non eri mai solo. Mai.

Mai un momento di privacy, neanche in bagno, dove, tra porte rotte e scherzi, eri privato anche del sacrosanto momento di quiete per evacuare. Mi sentivo bene: quell’inquietudine, quell’angoscia che mi tormentavano da sempre erano stranamente scomparse.

Mi resi conto che il tratto distintivo della mia infanzia e della mia adolescenza era stata la solitudine. Nulla da condividere con gli amici di strada che avevano preso strade diverse, studi tecnici finalizzati al lavoro, nulla da condividere con i miei compagni di squadra di pallanuoto se non la fatica degli allenamenti. Complimenti, quel che si dice una persona integrata.

Mi identificavo senza sforzo nei valori che in caserma tentavano di inculcare, per me erano condivisibili, quasi conferme di una identità già mia, ma che scoprivo fondante in quel luogo nascosto. Sì, perché la caserma è un luogo protetto, inaccessibile al mondo: niente imprevisti, regole certe, persone identificabili. Guardavo un militare sconosciuto e capivo dalla divisa il suo ruolo, se era un “imboscato” o un operativo, le qualifiche, le campagne, tutta la sua vita in un colpo d’occhio, altro che nella vita civile, dove non sai mai chi hai di fronte. Qui la tua divisa ti raccontava e se avevi missioni o qualifiche prestigiose, faceva sì che tutti lo vedessero e ti rispettassero.

L’addestramento era tenuto, tra gli altri, da un Sergente maggiore che possedeva il brevetto del corso di Ardimento: nei momenti di riposo ci raccontava di fatiche immani per conseguire l’agognata qualifica, il cui stemma è un gladio avvolto dalle fiamme. Ascoltavo affascinato i racconti di quelle prove estreme, maturando l’idea che un vero uomo dovesse cimentarsi in tali contesti. Verso la fine dei due mesi

di addestramento previsti, la vita in caserma non era più motivante: oramai superavo senza sforzo qualunque tipo di prova a cui eravamo sottoposti; ero circondato da cani morti, mi dicevo. Una mattina si presentò un Capitano dei paracadutisti completamente ricoperto di missioni, qualifiche, brevetti: cercava candidati per rappresentare l’Italia in una gara internazionale in Germania, la Boeselager. «Cerco soldati che rappresentino l’Italia, per una gara contro il meglio degli eserciti della NATO. Otto prove: percorso di guerra, nuoto tattico, tiro istintivo, riconoscimento mezzi e uniformi e gradi del Patto di Varsavia, pattuglia notturna, pattuglia diurna, ricognizione da elicottero, gimcana con autoblindo».

E ancora: «Cerco gente che mangia ferro e caga chiodi». Io non cago chiodi però quelle parole toccavano le corde oscure del mio essere. Passai la selezione e un mese dopo ero a Scuola di Fanteria e Cavalleria alla Cesano di Roma, alloggiato in una palazzina fatiscente, con altri sedici ragazzi, doccia a canna, niente cubo, zero pulizie, ancora zero riscaldamento, zona di addestramento: il mitico complesso del corso di Ardimento!

Te la sei cercata, guerriero.

La Scuola di Fanteria e Cavalleria era un enorme complesso di caserme, così grande che per percorrerne il perimetro di corsa – una decina di chilometri – occorreva un’ora. Era ubicata in un paese fuori Roma, Cesano di Roma, noto solo per il fatto che era il luogo dal quale si diffondeva il verbo sacro in tutto il mondo: Radio Vaticana. La voce del Vaticano era così potente che i cittadini la udivano costantemente anche nei citofoni.

Il paese coincideva, a parte Cesano Alta, che era un borgo medievale molto caratteristico, con il complesso militare, insieme a tutti gli alloggi di servizio, i negozi e i ristoranti nati come per soddisfare le esigenze dei soldati, praticamente un posto squallido. Per raggiungerlo, oltre alla strada statale, vi era un trenino che partiva da Città del Vaticano ed arrivava a Bracciano, sull’omonimo lago, percorrendo una serie di stupendi paesi antichi, dove tra l’altro si mangiava benissimo, tantissimo ed a costi irrisori.

A cosa serviva la Boeselager? Sostanzialmente si trattava di una gara valutativa delle pattuglie esploranti della NATO.

All’epoca esisteva ancora la cortina di ferro, per cui servivano soldati capaci di infiltrarsi nel territorio nemico, in pochissime unità, osservare entità e qualità dei mezzi, uniformi reparti e ritornare per raccontarlo. Gli occhi dell’esercito. Settimana tipo dell’aspirante guerriero Boeselager:

  • Lunedì: h 6.30 partenza poligono tiri; h 15.00 riconoscimento mezzi uniformi e gradi.
  • Martedì: h 7.00 dieci km di corsa, colazione, doccia; h10.00-13.00 riconoscimento mezzi uniformi e gradi; h 15.00 lancio bombe a mano (simulacri per la gara); h 17.00 fine operazioni.
  • Mercoledì: h 7.00 dieci km di corsa, un’ora in piscina;h 12.00-13.00 riconoscimento mezzi uniformi e gradi; h 15.00 lancio bombe a mano (simulacri per la gara); h 17.00 fine operazioni.
  • Giovedì: h 7.00 partenza pattuglia diurna con auto-blindo; pranzo al sacco; h 15.00-17.00 riconoscimento mezzi uniformi e gradi.
  • Venerdì: h 7:00 dieci km di corsa, un’ora in piscina; h12.00-13.00 riconoscimento mezzi uniformi e gradi; h 15.00 lancio bombe a mano (simulacri per la gara); h 21.00 pattuglia notturna.
  • Sabato: h 10.00 rientro da pattuglia; libera uscita fino adomenica sera.

Cuore della Scuola era il complesso di Ardimento: una piscina; tre torri di tubi innocenti alte 18 metri, collegate da ponti himalayani; assi di equilibrio e ponti oscillanti, con la parte frontale ricoperta in assi di legno per consentire l’arrampicata e la successiva discesa in corda doppia. Da quelle torri venivano eseguiti i lanci su telo tondo ed a scivolo, la discesa “all’australiana”[2] e la discesa con carrucola lanciandosi in piscina. Su tutto troneggiava all’ingresso un’enorme stemma con il gladio fiammeggiante.

Per quanto riguarda il telo tondo si saliva progressivamente a 3, 6, 9 metri saltando a squadra, ossia seduti ad angolo retto e cercando di impattare il telo con le mani distanti dal sedere. Era necessario fidarsi nell’abilità dei compagni che sostenevano il telo di fare collimare il centro del telo stesso con il fondo schiena di chi saltava, diversamente l’impatto sarebbe risultato assai più duro. A rotazione ognuno ricopriva l’incarico di capo telo, si posizionava alle 12 del cerchio impugnava l’anello sul quale era montato il telo e, guardando verso l’alto, cercava di inseguire il compagno volante tirando a se l’anello, all’italico urlo: «A me!».

Il nostro istruttore, il mitico Maresciallo Monti, era un vecchio sabotatore paracadutista, l’unico che riusciva a saltare sul telo tondo da 18 metri. a volo d’angelo atterrando di petto. Il maresciallo era un personaggio veramente incredibile: probabilmente buona parte degli italiani lo conosce perché era il compagno di lancio di Philippe Leroy nella pubblicità dei Pavesini. Ma aldilà delle incredibili qualità fisiche (a 56 anni scalava i muri come un gatto) era nell’esprimersi verbalmente che raggiungeva vette di simpatia e capacità comunicativa non comuni. Il suo era uno slang personale, ad esempio per dire: «Ragazzi, cercate di sparare bene», egli dichiarava: «Ragazzi, dovete sparare alla realtà».

Criptica e surreale la sua spiegazione circa il lancio con il paracadute, condensando tre mesi di corso istituzionale AMPDI[3], in trenta minuti, perché intanto, a suo dire: «Non serve a un caz…». Salito su di un macigno alto un metro, enunciava: «Voi state alla porta. Luce gialla! In campana. Luce verde! Schizzo fuori. Mille e uno, mille e due, mille e tre, mille e quattro, mille e cinque… e, che cazzo, emergenza». Il tutto mimato, mentre salta dal sasso, un uomo alto un metro e settanta per un metro e settanta, praticamente un cubo di muscoli. Un anno dopo andò in pensione, aveva tentato di sistemare alla Scuola sottufficiali il figlio, persona con caratteristiche diametralmente opposte a lui (non si capiva se fosse stato scartato o non avesse voluto intraprendere la carriera militare).

Di questo non si dava pace, fu forse la vita del pensionato o semplicemente il destino, sei mesi dopo la pensione, il suo ultimo lancio, questa volta verso l’alto, senza emergenza. Un infarto. Quando gli si chiedeva quanti lanci avesse fatto, rispondeva: «Dopo tremila non li ho più contati».

Il telo a scivolo era agganciato ad una decina di metri sulla torre, per cui saltando da 18 metri in realtà se ne percorrevano in caduta solo 8. L’effetto ottico era micidiale, la torre a 18 metri si muoveva e si doveva saltare compiendo una capriola che avrebbe portato ad impattare sul telo con la schiena. La cosa importante era avere una configurazione a squadra con le mani bene alte, perché se esse avessero toccato il telo in discesa, si sarebbe prodotto un effetto di scorticamento sanguinolento poco piacevole. La discesa all’australiana era un puro atto di fede nei compagni.

Si trattava di saltare da 18 metri con un’imbracatura auto costruita di cordino alla quale si applicava un moschettone, nel quale passavano due corde. In pratica in fondo vi erano tre compari per corda che correvano in direzione opposta mettendo in trazione le corde. L’effetto era una caduta libera per diversi metri che veniva poi rallentata sino a terra dall’attrito provocato dalla trazione delle corde.

Il lancio in piscina dalla carrucola era forse il gioco più divertente. Si partiva impugnando una carrucola dalla sommità della torre ed arrivati sopra la piscina ci si lasciava cadere, più o meno da 5 metri. L’esercizio prevedeva però delle accortezze: la prima era che non erano previsti mancamenti sulla carrucola, infatti non vi era nessuna fune di sicurezza perché avrebbe impedito il lancio in piscina. La seconda consisteva nel fatto che la corsa della carrucola terminava sadicamente su un tabellone, in caso di ritardo al lancio si finiva spiattellati come Willy il coyote. Infatti: «Sergente tal dei tali. Via!» Bam! Uno in meno al corso di ardimento, uno in più all’ospedale.

L’ufficio era caratteristico ed essenziale, una gigantografia del complesso con personale in attività, con scritto: Arditi paracadutisti dell’Italia repubblichina. Il complesso di ardimento era terra di nessuno, fuori giurisdizione istituzionale, un posto che ti diceva: «Avete bisogno di gente come noi?

Allora non rompete i cog…».

Dovevamo prepararci per la gara che si sarebbe svolta in Germania, infatti questa era una “classica” tedesca: i tedeschi gareggiavano in una competizione riservata solo alle loro squadre che erano undici, poi la competizione internazionale si sarebbe disputata tra Italia, USA, Canada, Olanda, Inghilterra, Francia, Turchia, con osservatori della Legione Straniera Spagnola. Noi eravamo gli unici di leva, inoltre gli USA schieravano reparti di stanza in Germania, per cui perfettamente acclimatati. Otto prove: la più importante in termini di punteggio era la pattuglia diurna, consistente in una ricognizione di un’area con due mezzi: in questa area erano nascosti perfettamente mimetizzati carri armati o cannoni.

Si trattava di accorgersi del pericolo e cambiare direzione, quindi osservare con i binocoli ogni anfratto ove sarebbe stato possibile piazzare un carro. Tutto questo gioco per 20 /30 km di tornanti in campagna,. Un lavoro estenuante.

Seconda prova: pattuglia notturna. 12 ore di marcia di notte, nelle quali bisognava raggiungere dei punti prestabiliti con delle esercitazioni. La pattuglia era composta da otto soldati, ognuno con una sua specializzazione: vi erano i navigatori che si occupavano della rotta, i contapassi che in base alla lunghezza del loro passo erano allenati a misurare le distanze, quelli specializzati al riconoscimento mezzi uniformi e gradi del Patto di Varsavia[4], gli occhi che precedevano la Pattuglia per confermare la configurazione del terreno che ci si aspettava nel tragitto. Il tutto nel più assoluto silenzio e utilizzando luci schermate solo per fare il punto di stazione.

Di solito veniva consegnato un lembo di carta della quale non si conosceva la scala, con il punto da raggiungere e si partiva. Trovato il primo ecco una bella foto aerea, e vai con il secondo punto. Al secondo punto modellini coperti da reti mimetiche, illuminati eccetto che per alcuni particolari dai quali desumere il modello del carro sovietico o del lanciamissili… dopo di che una bella filastrocca con distanze e direzioni da imparare a memoria (un pezzo ciascuno) e via verso il terzo punto… Poi una bella navigazione ad angolo di bussola all’interno di un bosco con il caratteristico movimento a lombrico. Così tutta la notte (tutti i sabato notte).

Il percorso di guerra: un incubo di sofferenza, non essendo io un corridore, i continui cambi di ritmo di corsa per superare ostacoli, strisciare sotto i reticolati, passare su travi, rappresentavano una fatica immane, in particolare l’ultimo muro, il muro del pianto. Intravedi il termine del percorso dopo una corsa con anfibi ed arma ed ecco un bel muro, il più alto. Conosci la tecnica di superamento, ci devi correre praticamente sopra ed arrivare con le dita alla sommità, qui ti sollevi a braccia. Peccato che le gambe ti permettano al massimo di strisciare e, in quel momento, un corale: «Muoviti cane morto! Ti diamo una mano noi». I compagni formano una pedana e ti lanciano oltre.

Durante il percorso erano previste due postazioni per il lancio della bomba a mano per neutralizzare buche e finestre. In quel frangente il mio braccio da pallanuotista compensava le mie prestazioni podistiche da cane malato, i piccoli contenitori descrivevano le loro traiettorie e si infilavano precisi negli obiettivi, gli anni in vasca erano serviti.

Nuoto tattico: in qualità di signore degli abissi, ero nel mio elemento. Si partiva con il confezionamento di un pacco con i teli tenda – al cui interno andava sistemato lo zainetto tattico, in modo che il tutto fosse trasportabile a mo’ di fagotto galleggiante – che veniva poi chiuso con un cordino al quale si assicurava l’arma.

Gli allenamenti si svolgevano al Lago di Martignano, una location bellissima, raggiungibile solo via sterrato, dove usavano prendere il sole i naturisti. In inverno indossavamo delle mute e ci allenavamo per una distanza intorno i 500 metri. Partivo con il fagotto, arrivavo e tornavo indietro a trasportare il fagotto di un altro compagno, arrivavo e di nuovo: «Chi è il cane morto?».

Tiro istintivo: sotto l’occhio vigile del grande Monti imparammo a sparare alla realtà. Ognuno di noi aveva un’arma personale, una mitraglietta m12 «rustica ma precisa», che mettevamo a punto allenamento dopo allenamento. Posizionavamo tre sagome di diversa grandezza a distanze diverse per ogni piazzola di tiro, per cui, quando il maresciallo urlava: «Un e. Tre!» significava piazzola uno sagoma tre. A volte si verificava uno strano fenomeno: il maresciallo veniva colto da una sorta di sindrome del maestro di orchestra, per cui: «Quattre, un’e cinque quattreun’e mument… e che cazz… tre due…». Risultato? Alcune sagome contenevano più proiettili di quelli sparati ed altre un numero molto inferiore, ed allora: «Voi non sparate alla realtà! E che caz…».

Riconoscimento mezzi uniformi e gradi del Patto di Varsavia : vale a dire di Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Russia, Ungheria e Jugoslavia; saper riconoscere i gradi, le uniformi, le armi, i camion, le autoblindo, i carri armati ecc. da un particolare, per esempio vedendo una marmitta di scarico. Lo scopo? Ogni mezzo è utilizzato da unità e non da altre, se vedi un trasporto truppe che sai che è utilizzato a livello di Compagnia sai che lì ci sono almeno 200 soldati.

Alcuni di noi furono selezionati per fare i piloti delle autoblindo: avremmo anche dovuto cimentarci in una gara di abilità di guida. Ricognizione con l’elicottero: era riservata ai Comandanti ed io, essendo un soldataccio semplice, non ne ero coinvolto.

I mesi passavano, i meccanismi di azione si automatizzavano e si affinavano sempre di più. Ma chi erano i ragazzi della Boeselager? Premesso che la rappresentativa nazionale di questa gara era formata da due squadre: Italia uno ed Italia due, i ragazzi erano stati selezionati in giro per l’Italia tra quelli che praticavano sport, ma senza essere atleti di interesse nazionale per i quali erano pronti i residence del centro sportivo dell’Esercito. I ragazzi erano atleti discreti, persone normali alle quali era stata data la possibilità di dire: «Sono stato un nazionale» di qualche cosa. I sedici furono il prodotto di una selezione spietata, nella quale potevi essere sbattuto fuori ogni momento. Comunque, tanto per dare un’idea ecco alcune caratteristiche di qualcuno dei ragazzi di Roma.

Un insegnante Isef, triatleta, unico capace di insidiarmi in acqua e di superarmi (di poco, 197 cm) in statura, irraggiungibile sulla terra. Fu protagonista di un crollo nervoso, causato da motivi sentimentali, durante la gara, prontamente recuperato dai compagni a mazzate. L’Abruzzo schierava un terzo agli Italiani di pugilato pesi welter, una persona di temperamento vulcanico ed intelligenza vivissima; Milano portava un militante in serie A di football americano, un cubo di 170×170 di simpatia, e potrei continuare a citare le caratteristiche sportive di tutti, ma non potrei finire di descrivere gli aspetti umani di ragazzi di vent’anni così entusiasticamente normali. Per mia parte, ogni mattina sperimentavo il mio limite nella quotidiana corsa, a circa tre quarti del percorso mi appariva la Madonna nelle sembianze di Edvige!

Sette mesi prima, terminata la maturità, acquistato un fantastico biglietto ferroviario interail mi imbarcavo, sempre dalla solita Stazione Principe, per la Spagna, con il solito gruppetto di amici di infanzia, con i quali in realtà non avevo mai condiviso nulla, se non la frequentazione. Diversi erano gli obiettivi: i loro, sconvolgersi dall’alba al tramonto, il mio le femmine.

Dopo un viaggio allucinante di diciotto ore in corridoio giungemmo a Salou, località turistica che ci era stata segnalata dal tam tam dei girovaghi della Spagna. Giusto il tempo di montare la tenda in campeggio ed i miei compari la trasformano in una fumeria. «Ci vediamo dopo ragazzi». Le spiagge mi attendevano.

Camminando in riva al mare mi accorsi di essere l’unico con il costume ma, particolare inquietante, erano tutti maschi. Mi trovavo nel mezzo di una spiaggia nudista di omosessuali. Imprimendo una certa accelerazione alla mia camminata, mi ritrovai in una spiaggia per nudisti “mista”, per cui, decidendo di adeguarmi, andai a nuotare come mamma mi aveva fatto. Ero in mare a rilassarmi, quando mi circondò una compagnia di ragazzi spagnoli, uno dei quali, che teneva in braccio una fanciulla, mi disse: «lo quieres »? «querios si’»! Questo era un po’ l’atmosfera di grande libertà sessuale che si viveva in quel periodo in Spagna. Mi divertii come un matto per due settimane, mentre i miei compari continuavano la loro esperienza fumosa.

Malaga, Andalusia. Questo luogo per me aveva un significato particolare. Come ho già detto, il mio bisnonno materno, era un gitano di Malaga. A lungo avevo fantasticato osservando quel vecchio che ancora portava all’orecchio una moneta d’oro. Per la verità non era, per quel che si può dire, proprio una persona per bene, le storie che circolavano sul suo conto erano abbastanza inquietanti. Si narrava in merito alla sua leggendaria forza fisica, che avesse ucciso in tempo di guerra un soldato tedesco che lo voleva arrestare “conficcandolo” dentro una saracinesca, e anche di quando aveva divelto fino al terzo piano la ringhiera delle scale del palazzo dove abitava, durante una lite con un condomino.

Sia come sia, volevo vedere di persona i gitani spagnoli.

Il momento era propizio. La festa di Malaga, una settimana di bagordi, musica, balli e costumi tipici. La mia guida fu il proprietario di un locale che, dopo avermi introdotto per una notte nelle più esclusive feste della città mi disse: «Hai mai provato a baciare un uomo?». Essendo in debito per la sua gentilezza, risposi che se in futuro avessi avuto tale esigenza, previa la rasatura dei suoi baffi, lo avrei certamente contattato. Comunque, nel frattempo, avanzai la mia richiesta: «Non è che mi presenti qualche esponente femminile tipico?».

Ritornai all’alba dai compari, sempre in stato allucinatorio e partimmo per Torremolinos. Altra settimana tra discoteche e spiaggia fino all’inevitabile momento: «Ragazzi, ultima notte, abbiamo finito i soldi». Vagavamo per locali, quando un signore ossigenato ed evidentemente interessato a me, mi propose: «Stasera elezione di mister macho italiano, in palio cinquecentomila lire ed un paio di espadrillas rosa, partecipi?». «Va bene – risposi io – ma entriamo tutti gratis».

Ed eccomi in passerella in mutande in mezzo a culturisti depilati; accanto a me un ragazzo di Bologna. Decidiamo di sdrammatizzare il momento e la mettiamo in forma auto ironica, per cui alla fine incredibilmente, nonostante lui sia riconosciuto più bello, la giuria mi proclama mister macho italiano. Simpatizzo con due ragazze del Belgio, che mi invitano a proseguire il giro della Spagna con loro. Ho appena deciso come spendere le cinquecentomila lire vinte: ciao ciao, amici.

Una delle due fanciulle era appunto Edvige, la Madonna che mi appariva ai trequarti del percorso mattutino, con la quale avevo instaurato un romanticissimo rapporto, per cui, nelle intensissime telefonate tra innamorati, arrivai a prometterle: «Se riesco a partecipare alla gara in Germania, ci danno una licenza premio di una settimana: siamo vicini, ti vengo a trovare».

Nessuno era certo di essere in squadra, un giorno il colonnello mi chiamò a rapporto: «Hai buoni punteggi in tutte le discipline, eccetto la corsa, come mai?»

« Signor Colonnello non so, io mi impegno, ma i tempi sono quelli.»

«Vai a correre di notte.»

«Comandi!»

Come un criceto nel rullo continuavo a correre tentando di raggiungere l’apparizione; dovevo essere in squadra.

Cinque giorni di licenza, ritorno a casa. Una meraviglia, nessuna sveglia, un letto vero con un piumone, il profumo del cibo, che ti raggiunge nel sonno. Stavamo cenando; alla televisione il telegiornale trasmetteva un servizio sulla situazione di tensione militare in qualche stato dal nome impronunciabile dell’URSS. All’improvviso apparve un mezzo ed io: «Bmp1», ne appare un altro «Btr 70», un soldato «Capitano delle forze speciali “spenaz” armato con pistola tocarev e lancia razzi rpg.7».

Mio padre perplesso mi disse: «Siamo sicuri che va tutto bene?». «No, è che sono i test di riconoscimento mezzi… perché sai…» e lui, interrompendomi: «Sei contento?». «Sì!». «Allora va bene». Un grande, mio padre. Come sempre. Mai un atteggiamento giudicante, mai un cenno di disappunto, sempre massima fiducia, un pedagogo irraggiungibile dalla massa degli accademici.

Strano, dovevo ripartire, ma non provavo tristezza, anzi, di fronte alla palazzina diroccata della Boeselager mi sentivo stranamente al sicuro; l’incontro i ragazzi, una doccia fredda a canna e via in branda in tuta e berretto. Finalmente a casa.

Giornata intensa: corsa, nuoto, test; crollo in un meritato e profondo sonno. «Sveglia cani morti, si va a giocare». Vedo il Colonnello con il volto annerito e lo zainetto e penso: «Ma che ore sono?». «Avete dieci minuti, vi voglio in assetto tattico, andiamo a fare il culo agli AUC [5]».

Ma ecco l’antefatto: il Colonnello si era presentato al Circolo Ufficiali a cena e, disquisendo amabilmente, aveva sentito il comandante di una compagnia AUC che dichiarava: «Stiamo facendo un’esercitazione sulle colline qua fuori, un caposaldo di compagnia inespugnabile. Duecento allievi presidiano l’area con punti di osservazione occultati e pattuglie…» e lui interrompendolo: «Scommetti che entriamo, usciamo e neanche ve ne accorgete?» Scommessa accettata.

I due avevano trascorso il dopo cena tra discorsi elevati e, a tarda serata il colonnello aveva detto: «Buona notte, vado a casa», ma percorso il viale che terminava con l’uscita presidiata dalla guardia e dall’ufficiale di picchetto, era uscito. Un’ora dopo, rientrava in maniera occulta e ci svegliava.

Uscimmo evitando le ronde e scavalcando il muro di cinta; un mezzo ci attendeva fuori. Si gioca. Poco dopo sedici ombre strisciano in piena area presidiata, incontriamo un punto di osservazione, dormono tutti. Probabilmente avvertiti che il nostro Comandante era andato a casa, ritenevano non fosse quella la notte dell’azione. Gravissimo errore, i ragazzi non dormono mai.

Uno di noi entra nella buca, inizia un passamano delle loro armi ma, disdetta, uno di loro si sveglia: «Allarm…» l’urlo si spegne, un possente pugno in pieno naso trasforma il suono in un gorgoglio di sangue. Il casino è fatto, scappiamo nel buio per il monte, con il bottino probatorio. Simultaneamente si accendono bengala ovunque, pattuglie che corrono su e giù per le colline e noi che strisciamo come vermi nell’erba. Nel caos più totale vediamo un casolare; gli occhi ritornano dalla ricognizione: «Colonnello, là dentro è pieno di allievi che dormono». «Facciamogli una visitina».

Gran brutto risveglio, la guardia legata come una mummia, le armi sparite.

Rientriamo alla Scuola, nessuno si è accorto nulla, controlliamo l’equipaggiamento personale, manca un simulacro di mitraglietta, penso: «Poco male, una mitraglietta finta contro fucili e munizioni vere». Peccato che quella mitraglietta l’avevamo solo noi, una firma. La mattina seguente il Generale comandante della scuola in adunata minaccia di fare perdere il corso a tutti gli AUC, il povero allievo con il naso ingessato, duecento allievi incazzati che ci promettono festosa accoglienza in libera uscita ed ovviamente il Colonnello, che si diverte un mondo.

Quando ci accordavano il fine settimana libero andavamo a Roma e ci perdevamo in quel marasma di turisti e altri militari che affollavano i soliti luoghi: Piazza di Spagna, fontana di Trevi, Piazza Navona, ecc.

Tutta quella vita e quell’enorme quantità di femmine scatenavano gli ormoni del nostro gruppo, per cui in perfetto assetto tattico ci provavamo con qualunque essere di fattezze femminili e, puntualmente, venivamo “rimbalzati”. Eravamo come gli appestati con i campanelli, immediatamente riconoscibili per via dei capelli tagliati quasi a zero, per l’abbigliamento poco alla moda e per i pochi denari disponibili.

La notte scalavamo un muro a Villa Borghese e dormivamo su dei cartoni in una aiuola nascosta. Una volta andammo in un cinema-teatro praticamente frequentato esclusivamente da militari di leva e da omosessuali. Il programma era il seguente: proiezione di un film pornografico con tanto di vecchietti che contrattavano compensi per palpare dei ragazzini e serie di spogliarelli di star locali di terrificante squallore.

Era una sorta di avanspettacolo, dove signore tristissime tentavano di essere eccitanti mentre un pubblico feroce le apostrofava con i tipici commenti alla romana «a buzzicona… anvedi che sorca». Alcuni militari di servizio a Roma avevano trovato il modo di guadagnare dei soldi prostituendosi con uomini, ma anche con signore o coppie; per quel che ci riguardava eravamo in una situazione molto simile a quella dei rom o dei clandestini: disadattati, emarginati, in pratica invisibili e non graditi.

Finalmente partenza per la Baviera, Germania. Ci saremmo allenati con i tedeschi, per un mese. Impeccabili gli alloggi della caserma tedesca: camerette con bagno e stanzoni doccia completamente in acciaio inox, con acqua calda h24. Fantascienza.

I militari tedeschi, anche se di leva, dormivano a casa e si presentavano la mattina come normali lavoratori, inoltre, punti di ristoro con salsicce, birra e crauti sempre aperti. Oltre la fantascienza.

Carri armati Leopard 2 con mimetismo invernale, perfettamente allineati, insomma un’atmosfera di efficienza mai vista in Italia. Le giornate trascorrevano scandite dagli allenamenti ed al termine, libera uscita. Incredibilmente la discoteca del paese apriva verso le dieci, per cui potevamo ballare fino a mezzanotte, potendo quindi simpatizzare con le fanciulle locali.

Uno dei nostri ufficiali, che a colloquio con una vichinga, mi dice: «Senti aiutami un po’, non parlo inglese». Io comincio a comunicare con la fanciulla che però si mostra immediatamente interessata più a me che al Capitano. Dopo qualche minuto di isolamento questo mi chiama: «Che cazzo fai, freghi le donne al tuo Capitano?».

«Beh, signor Capitano, non scelgo mica io!».

«Vieni fuori che mi levo i gradi». Dieci minuti dopo ci stavamo bevendo una birra, un po’ pesti ma riappacificati.

Questi erano gli ufficiali della Boeselager.

La fase finale degli allenamenti si concludeva con una gara contro otto squadre tedesche che, evidentemente, erano fortissime. Si comincia: prima prova, seconda… Vengono assegnati i punteggi e grande festa a salsicce e birra. Il Generale tedesco si presenta a declamare il vincitore e… non è una squadra tedesca. Non era possibile, da cenerentole delle Forze Armate della Nato, eravamo appena diventati i favoriti alla gara internazionale. Si poteva fare.

Partenza per Monaco, due giorni di relax, libera uscita illimitata, quindi chiediamo ad un taxi: «Vogliamo divertirci, donne…». «Ok, club Emanuelle». Club Emanuelle: una discoteca con consumazione illimitata ed una “consumazione particolare” compresa nel prezzo di entrata: centomila lire.

Le ragazze del club erano di una bellezza e di un mestiere che producevano un effetto impossibile da descrivere in noi, abituati a sudare sette camice per un appuntamento con le ragazze in Italia. Fu così che per molti la “consumazione particolare” si trasformò in una specie di maratona sessuale, che inesorabilmente azzerò le nostre risorse economiche, ma d’altronde quando mai sarebbe capitato di nuovo?

Destinazione finale Hessich, Foresta Nera: la gara.

DONG, DONG, DONG…


Note:

[1] Centro Addestramento Reclute.

[2] Descrizione alla pagina seguente.

[3] Associazione paracadutisti di Italia.

[4] Alleanza politico-militare e organizzazione di mutua assistenza fra l’Unione Sovietica e le democrazie popolari dell’Est europeo, operativa dal 1955 al 1991.

[5] Allievi Ufficiali di complemento.


  • Attualmente funzionario per le tecnologie del Ministero della Cultura, diver supervisor dei subacquei dello STAS (Servizio Tecnico per l'Archeologia subacquea della Liguria).
    Laurea Specialistica in "Educazione degli adulti e formazione continua" Universita di Genova, Commercial Diver (palombaro civile) e formatore degli istruttori subacquei anche per immersioni tecniche (uso di miscele respiratorie diverse dall'aria per immersioni profonde).
    Formatore di soccorso in acqua, elisoccorso e subacqueo.
    Primo capitano nella Brigata Paracadutisti Folgore con diverse missioni all'estero, per il Corpo Militare della CRI, formatore alle forze armate di MINE RISK EDUCATION ed assistenza sanitaria per incidenti da esplosioni.
    In qualità di operatore umanitario è stato logista in Somalia per l'ONG INTERSOS dove ha fatto parte del primo nucleo di sminatori umanitari Italiano.
    In ambito sportivo ex agonista di pallanuoto (due secondi posti campionato italiano under 18), membro della nazionale italiana militare per la competizione internazionale BOESELAGER CUP (gara di pattuglie esploranti internazionale) 4° posto nella NATO.
    Autore del libro "Uscita di sicurezza", vincitore di diversi riconoscimenti per romanzi.

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