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Immigrazione di massa: l’arma definitiva del destino demografico

Nel libro “Armi di migrazione di massa” Kelly M. Greenhill spiega in modo convincente come la minaccia di uno spostamento di popolazione, più o meno eterodiretto, rappresenti uno degli più efficaci strumenti di coercizione geopolitica.

Che la migrazione di massa, tramite l’alterazione o la sostituzione etno-religiosa tout court, sia un fenomeno in grado di stravolgere gli equilibri geopolitici non è cosa nuova. La storia è piena di esempi. Il più studiato nei libri di scuola è quello di Roma, che durante la sua espansione creava colonie di veterani nei territori strategici, conquistando col popolo ciò che aveva occupato con le armi. Negli ultimi due secoli di vita fu invece l’Impero ad affrontare migrazioni/invasioni, per lo più germaniche e sempre più numerose. Già decadente per motivi endogeni e necessitante di manodopera (la fine dell’espansione generò carenza di schiavi e la professione militare era sempre meno attrattiva), la civiltà romana decise di aprire parzialmente la porta ai germani. La soluzione fu di permettere ad alcuni popoli di entrare nel territorio imperiale, a condizione di divenire agricoltori stanziali e di servire nell’esercito. Queste comunità “ospiti” venero definite foederati. Col tempo la civiltà romana li avrebbe assimilati, rendendoli romani a tutti gli effetti e quindi meritevoli della cittadinanza. Lo scotto di tale strategia fu l’imbarbarimento dell’esercito, ma la cosa incredibile è che il sistema stava funzionando: i germani erano etnicamente simili ai romani ed alla maggioranza dei non romani romanizzati (parliamoci chiaro: erano tutti bianchi). Inoltre erano proprio i barbari a voler essere assimilati nella civiltà della Caput Mundi. Col tempo, infine, il cristianesimo creò un ulteriore elemento di fusione tra mondo germanico e latino, poiché gran parte dei barbari che superarono il Limes renano-danubiano erano cristiani (sebbene quasi sempre attraverso l’eresia ariana e con retaggi pagani).

“La distruzione dell’impero”, Cole Thomas, 1836.

Allora perché l’Impero crollò? Per un evento imprevedibile, l’espansione degli Unni. Tale popolo turco-mongolo proveniente dall’Asia invase l’Europa, creò un effimero impero e, con la sua ferocia, costrinse i germani a riversarsi in massa dentro la romanità. Incapace di respingere militarmente tale massa di disperati, Roma ne divenne preda dopo aver cercato di renderli schiavi. L’Impero d’Oriente si salvò per un pelo e visse altri mille anni sotto il segno del Cristo ortodosso, quello d’Occidente si decompose nei regni romano-barbarici. Paradossalmente questi regni furono il seme dell’Europa attuale, poiché lo Stato romano morì, ma l’assimilazione iniziata secoli prima ebbe sostanziale successo. Simbolo di tale fusione sono i territori europei di lingua e mentalità neolatina, ma aventi nomi di popoli germanici: Francia dai Franchi, Borgogna dai Burgundi, Lombardia dai Longobardi, ecc. Risulta evidente che la fusione romano-germanica fu possibile in quanto le due etnie e le rispettive culture erano assai più simili di quanto non lo siano quelle coinvolte nelle odierne migrazioni di massa.

Un altro esempio di movimento antropico che ha portato ad uno stravolgimento totale è quello subito dalle popolazioni precolombiane. Limitiamoci al caso statunitense. Tra lo sbarco dei Padri Pellegrini della Mayflower nel 1620 e la chiusura della Frontiera statunitense nel 1890 passarono 270 anni. Non un battito di ciglio, ma un periodo breve se si pensa che in tale lasso di tempo i pellerossa quasi si estinsero e un Paese di dimensioni continentali acquisì un’enorme popolazione europea (con l’aggiunta dei neri africani e di altre minoranze più piccole). Tale stravolgimento demografico fu causato da quattro fattori: massiccia immigrazione europea; grande prolificità dei bianchi (e dei neri); malattie portate dal Vecchio Mondo che castrarono la crescita demografica dei pellerossa; superiore Civiltà Occidentale (agricoltura, industria e scienza). Tutto ciò azzerò le possibilità di nascita di una statualità indiana indipendente nel Nord America, con le conseguenze geopolitiche del caso.

Da notare che la sostituzione etnica dei precolombiani, in particolare negli USA, ha generato un filone storiografico di natura progressista/marxista poi ripreso in modo nefasto da Hollywood. Ciò impone un ragionamento: gli apologeti dell’immigrazione di massa dal Terzo Mondo in Occidente sono gli stessi che utilizzano la sostituzione etnica dei pellerossa come argomento antioccidentale. Costoro comprendono la contraddizione? Viene il sospetto che le argomentazioni contro la storia dell’espansione dei bianchi, sommate alla volontà di inondare l’Occidente di immigrati dal Terzo Mondo, altro non siano che uno strumento della mai conclusa lotta marxista per distruggere la Civiltà Occidentale. Semplicemente, in assenza dei carri armati sovietici e delle BR, oggi si coltivano i sensi di colpa e si utilizzano le masse inassimilabili del Sud del mondo. Naturalmente tale filone storiografico strappalacrime pro pellerossa ignora la sorte degli indigeni siberiani, quasi annientati dall’espansione zarista prima e dalle politiche sovietiche poi.

Rielaborazione di una foto del 1943 simboleggiante l’indipendenza del Libano.

L’ultimo esempio storico che affronteremo prima di tuffarci nell’attualità è il Libano. Il Paese dei Cedri divenne indipendente de jure nel 1943 e de facto nel 1945, dopo una storia che da sola basterebbe a sfatare la favoletta sinistroide dell’islam religione di pace e tolleranza. Fatto è che gli ex dominatori coloniali francesi crearono il Libano quale sancta sanctorum cristiano nella macroregione siriana (progetti simili per drusi ed alawiti furono ipotizzati, ma non attuati). Nel censimento francese del 1932 i cristiani erano il 50% dei libanesi, di conseguenza lo Stato si reggeva su un equilibrio religioso molto precario. Negli anni successivi all’indipendenza di Israele, tuttavia, progressive ondate di musulmani si riversarono nell’ex territorio francese, ed iniziarono i guai. Le prime avvisaglie avvennero nel 1958 poi, con l’espulsione di decine di migliaia di palestinesi dalla Giordania (islamica anch’essa) nel 1970, la situazione precipitò. I musulmani presenti in Libano divennero la maggioranza ed esplose la feroce guerra civile che tutti abbiamo studiato (o che avremmo dovuto studiare).

Dopo 50 anni di complesse guerre e tregue qual è la situazione confessionale libanese? Nel 2022 i dati del CIA World Factbook erano i seguenti: 67,8% islamici, 32,4% cristiani, 4,5% drusi (una particolare setta islamica considerata eretica dal resto dei musulmani). Questi dati, come se non bastasse, si riferiscono solo ai cittadini libanesi, senza tener conto dei circa 300.000 palestinesi e del milione  e mezzo (quasi un quarto della popolazione totale) di profughi siriani (dati del 2011). Questi numeri rendono il Libano il Paese con il maggior numero di rifugiati pro capite al mondo. Considerando il disastro demografico subito dai cristiani nel XX secolo e guardando i numeri attuali è facile prevedere che, tra qualche decennio, il Libano sarà completamente islamizzato. Questo fa del Paese dei Cedri un caso da manuale di sostituzione etnica (nello specifico etno-religiosa) dovuto all’immigrazione. Che tale immigrazione sia stata e sia tutt’ora composta da rifugiati di guerra e non da migranti economici (o da altre alchimie lessicali terzomondiste) il risultato è lo stesso: irreversibile distruzione demografica.

E l’Occidente? Diciamo subito che la situazione non è rosea. Partiamo da un caso particolare: l’immigrazione cinese.

La presenza cinese nel mondo.

La Cina ha sviluppato dai primi anni ‘70 del XX secolo una precisa relazione con le sue comunità emigrate all’estero. Un tempo incentrato essenzialmente sulla crescita economica, questo approccio interessa ormai la proiezione internazionale cinese, nella quale le comunità siniche presenti in America, Australia ed Europa sono de facto uno strumento di Pechino. Questo non deve sorprendere: eredi della grandiosa civiltà confuciana e con una madrepatria che ha saputo fondere la tradizione imperiale col dirigismo comunista, i cinesi d’oltremare sono portati a considerarsi una sorta d’avanguardia del restaurato Impero di Mezzo. Un impero che, senza girarci intorno, brama la sua vendetta contro quell’Occidente che lo sconfisse nel cosiddetto Secolo dell’Umiliazione (1839-1949).

Tuttavia, ancor più del “pericolo giallo”, risulta chiaro che l’islamizzazione dell’Europa e della Russia, così come la messicanizzazione degli Stati Uniti, rappresenti la minaccia numero uno alla sopravvivenza della Civiltà Occidentale (di cui anche la Russia fa parte, seppure sui generis e malgrado l’attuale leadership russa detesti sentirselo ricordare).

Le città dell’Europa settentrionale sono ormai un incubo ai limiti della guerra interetnica ed interreligiosa che sconvolse la Bosnia-Erzegovina. Le banlieaus francesi sono il caso più conosciuto, ma situazioni simili ormai sono una realtà consolidata anche anche nei principali agglomerati urbani britannici, belgi, tedeschi, svedesi e via discorrendo. Anche in Italia, dove il fenomeno è arrivato più tardi grazie alla relativa provincialità del nostro Paese, la situazione sta degenerando, come ben sanno gli abitanti di Milano, Torino, Genova, Bologna, ecc. Una geografia a macchie di leopardo che vede la provincia europea resistere a stento di fronte alla tracimazione degli immigrati, per lo più islamici, che ormai sono saldamente impiantati nelle grandi città.

Un disastro demografico, accentuato dalla scarsa natalità degli europei, cui le autorità non hanno ancora saputo rispondere con la dovuta fermezza, a causa di una politica ignorante e succube dei falsi sensi di colpa, questi ultimi eredi del Pensiero debole instillato nell’Occidente dalla propaganda marxista/terzomondista dal ‘68 in poi come un veleno ad effetto progressivo (o meglio… progressista).

La presenza islamica in Europa (dati 2020).

Risultato? Il Regno Unito sta abbandonando la common law, progressivamente sostituita dalla legge islamica, in teoria illegale ma tollerata dalle autorità; in Germania gli immigrati musulmani da qualche anno si dilettano con gli stupri di massa; in Francia persino il centrista Macron nel 2019 è stato costretto ad ammettere che “manifestazioni separatiste in alcune parti della nostra Repubblica, sintomatiche della mancata volontà di vivere insieme, a nome di una religione, l’Islam”; in Svezia, l’ex paradiso iperboreo (cucina a parte), le rivolte degli immigrati musulmani, forse parzialmente eterodiretti dall’Iran, sono una realtà che ricorrentemente incendia il Paese, con la Polizia che ufficializza l’abbandono di alcuni quartieri e che ha l’ordine di non descrivere i tratti somatici dei criminali, perché ciò “alimenterebbe il razzismo” (come se fossimo tutti stupidi). E avanti così… potremmo continuare all’infinito.

E il peso dell’immigrazione dal punto di vista bellico? La condizione demografica dell’Europa è talmente prossima alla libanizzazione che persino i partiti di sinistra iniziano a riconoscere che occorrano dei paletti (anche in questa timida reazione l’Italia è in ritardo). Ciò fa sì che il Vecchio Continente sia estremamente vulnerabile al classico ricatto mafioso, ovvero “paga milioni o ti inondo di migliaia di immigrati afroasiatici”. Finora i Paesi nordafricani e la Turchia con questa minaccia hanno rimediato fior di quattrini.

La Bielorussia crocevia dell’immigrazione.

Ma un ulteriore passo in avanti è stato effettuato dal dittatore bielorusso Lukashenko (cioè da Putin: l’uomo di Minsk è solo un Governatore molto autonomo), ovvero convogliare i flussi migratori verso l’Europa occidentale come strumento di guerra ibrida. L’esempio più famigerato di tale strategia avvenne a metà del 2021 (quindi prima dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, giusto per ricordarlo ai putiniani). In quell’anno la Bielorussa radunò un’armata di almeno 40.000 iraqeni, afghani, yemeniti e nordafricani (guarda caso tutti popoli islamici) al confine con la Polonia, per poi lanciarli verso ovest per fargli attraversare il confine dell’Unione Europea. Fortuna volle che la Polonia, buona conoscitrice dei modus operandi degli eredi dell’Unione Sovietica, abbia reagito virilmente ed abbia blindato il confine, tornando così ad essere il bastione est della Civiltà Occidentale come ai tempi della Guerra Sovietico-Polacca del 1919-1921.

Concludiamo la nostra analisi con le parole di Giovanni Sartori, che non fu certo un pericoloso xenofobo. Il celebre politologo, intervistato da Luigi Mascheroni per Il Giornale il 17 gennaio 2016, disse quanto sia illusorio sperare di “integrare pacificamente un’ampia comunità musulmana, fedele a un monoteismo teocratico che non accetta di distinguere il potere politico da quello religioso, con la società occidentale democratica” e “dal 630 d.C. in avanti la Storia non ricorda casi in cui l’integrazione di islamici all’interno di società non-islamiche sia riuscita”.

Giovanni Sartori (Firenze 1924, Roma 2017)

Parole nette ed impossibili da contraddire. Parole che dimostrano quanto la devastazione demografica dell’Europa ci stia conducendo rapidamente a due terribili scelte. La prima, più gravosa ma più semplice, sarà tra la grande espulsione degli allogeni o l’estinzione definitiva degli indigeni (cioè noi).

Vincere o perdere, insomma.

La seconda scelta invece sarà politico-civica, ma paradossalmente più odiosa della prima, poiché sarà una sconfitta in ogni caso. In sostanza gli europei dovranno scegliere se rinunciare a parte della propria democrazia o alla propria esistenza.

Il tempo per salvare entrambe è ormai pochissimo e i “fiumi di sangue” previsti da Enoch Powell sono imminenti.


Riferimenti bibliografici:

  • Laureato in Storia, autore di saggi storici e di svariati articoli di storia ed analisi geopolitica.
    Fondatore del blog "Caput Mundi", coordinatore sezione "Storia" e "Geopolitica" russa ed anglosassone.

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