Hamas: l’esordio politico
Dalla fondazione agli accordi di Oslo
Sin dalla sua fondazione negli anni Ottanta, Hamas (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya) non aveva mai dovuto affrontare difficoltà comparabili a quelle scaturite dalla sua affermazione alle elezioni parlamentari del gennaio 2006: da movimento di resistenza che negava la legittimità di Israele e respingeva gli Accordi di Oslo, Hamas si trovò improvvisamente nella posizione di dover guidare l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), istituzione nata proprio dal processo di pace di Oslo e caratterizzata da una debolezza strutturale. Le sanzioni economiche, dovute al rifiuto di riconoscere lo stato di Israele, colpirono duramente l’economia palestinese, costringendo Hamas a ricorrere al contrabbando di valuta dall’Egitto per sostenere servizi essenziali come sanità e istruzione.

L’accordo di Mecca
In questo clima di crisi profonda, i conflitti armati tra Fatah e Hamas peggiorarono ulteriormente la situazione. Nonostante i tentativi di mediazione di diversi paesi arabi – in particolare Qatar ed Egitto – fu solo l’intervento del re saudita Abdallah ad ottenere un risultato concreto: la firma dell’Accordo della Mecca, il 18 febbraio 2007; questo evento fu accolto con grande speranza dalla popolazione palestinese, nella convinzione che segnasse l’inizio di una nuova fase di unità e pace.
L’Accordo della Mecca rappresentò un chiaro mandato per condurre negoziati con lo Stato ebraico, secondo la tabella di marcia proposta dal cosiddetto Quartetto – formato da Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia ed includeva riferimenti giuridici rilevanti come le Risoluzioni ONU 242 e 338, nonché l’Iniziativa Araba di Pace approvata durante il vertice di Beirut del 2002. Un punto centrale dell’accordo, tuttavia, fu che il governo di unità nazionale risultante non era obbligato né a condannare esplicitamente l’uso della violenza, né a riconoscere formalmente Israele.
L’accordo ebbe vita breve: le potenze occidentali ed Israele non seppero trarre vantaggio dai cambiamenti in chiave politica di Hamas; questo lasciò campo libero alla conquista del potere delle ali più intransigenti del movimento, che ostacolarono l’attuazione degli impegni presi.
Una crisi decisiva si verificò con le dimissioni del ministro degli Interni, Hani al-Qawasmi, scelto proprio per la sua indipendenza rispetto alle due fazioni: Qawasmi ritenne irrealizzabile l’applicazione degli accordi alla luce della crescente violenza nella Striscia di Gaza, dove si moltiplicavano i rapimenti e le azioni di gruppi armati non affiliati, tra cui l’Esercito dell’Islam, sospettato di legami con al-Qaeda.

Fatah – Hamas
Le tensioni tra Fatah e Hamas si acuirono, in particolare per quanto riguardava la gestione delle milizie criminali che approfittavano della crisi. A giugno 2007, Hamas dichiarò guerra aperta alle istituzioni dell’ANP nella Striscia di Gaza, accusando il governo Abbas di essere asservito agli interessi di Israele e degli Stati Uniti. La vittoria militare di Hamas fu seguita da atti simbolici eclatanti, come la distruzione di manifesti di Yasser Arafat ed il saccheggio delle abitazioni di esponenti di Fatah, tra cui quella di Muhammad Dahlan, accusato di pianificare un colpo di stato con l’appoggio statunitense.
Gli scontri causarono 161 vittime, tra cui 41 civili: circa 80 erano membri di Fatah, mentre il resto apparteneva al gruppo di Hamas. Questa disfatta obbligò Abbas a sciogliere il governo guidato da Hamas ed a nominare un esecutivo di emergenza, presieduto da Salam Fayyad, figura ben vista dall’Occidente.
Le conseguenze furono devastanti: Gaza piombò in una crisi umanitaria aggravata dalle sanzioni e dalla chiusura dei valichi che costrinse oltre tre quarti della popolazione a vivere sotto la soglia di povertà, dipendendo quasi esclusivamente dagli aiuti umanitari internazionali.
La vittoria elettorale di Hamas non si tradusse in un miglioramento delle condizioni di vita o dei servizi, anzi, paradossalmente, il movimento risultava più forte prima di ottenere il controllo su Gaza. Allo stesso tempo, anche Fatah, pur dominando la Cisgiordania, vide ridimensionato il proprio peso politico. La scissione dei territori rese evidente come nessuna delle due fazioni avesse più l’autorevolezza o la capacità necessaria per rappresentare il popolo palestinese nei negoziati o per giungere ad una soluzione concreta del conflitto con Israele.

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