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Il grande tradimento digitale

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Come abbiamo smesso di possedere le cose e siamo finiti ad affittarle in perpetuo.

Benvenuti nell’era della smaterializzazione

Se siete tra quelli che, presi dalla malinconia del sabato sera, si sono messi a cercare il vecchio lettore CD in soffitta per far suonare Definitely Maybe degli Oasis, probabilmente avete avuto un doppio trauma. Primo, non ricordavate più dove fossero le cuffie a filo. Secondo, vi siete resi conto che l’unica cosa che oggi possedete veramente è la bolletta di internet.

In un arco temporale di appena quarant’anni, abbiamo assistito a una delle più grandi e silenziose rivoluzioni del consumo. Siamo passati da un mondo fatto di volumi fisici, videocassette ingombranti e dischi in vinile che pesavano come mattoni, a un’esistenza liquida, fatta di icone luminose e abbonamenti mensili. Eravamo i fieri proprietari di una collezione; oggi siamo i clienti in affitto perpetuo di un catalogo altrui.

Questo è il cuore del grande tradimento digitale: la transizione dal possesso all’accesso. Quello che paghiamo non è più la cosa in sé, bensì la fragile e revocabile licenza di guardare la cosa finché l’azienda proprietaria non decide altrimenti. La merce è diventata servizio, il prodotto è pura intangibilità. E noi, come una generazione distratta, abbiamo accettato lo scambio, sedotti dalla convenienza e accecati dalla promessa di un catalogo infinito. Questo articolo è un’immersione in questa evoluzione, un’analisi del modello di fruizione e un grido di allarme contro la più grande illusione dell’era moderna: pensare che un contenuto digitale pagato sia davvero nostro.

La nostalgia del tangibile (anni ’80 – ’90)

C’era un tempo, non così lontano, in cui l’atto di consumare un contenuto era un’esperienza fisica, tattile e rumorosa. L’adolescente degli anni ’80 non solo ascoltava musica, ma si sporcava le mani nel tentativo di registrare la Top of the Pops su una cassetta Maxell, sperando che il DJ non ci parlasse sopra. Il possesso era un rito sacro, e la collezione era l’estensione della propria personalità.

Pensate alle videoteche: veri e propri santuari del cinema, dove il dramma si consumava tra lo scaffale delle novità e quello dei film horror vietati. Il film che avevi in mano era tuo per due giorni. Potevi sentirne il peso, controllare che la cassetta fosse stata riavvolta (il dramma della multa per non riavvolgimento!), e magari notare una sbucciatura sulla copertina. Quel film, quell’album, quel videogioco su cartuccia: erano asset che potevi prestare all’amico, rivendere al mercatino dell’usato (finanziando, di fatto, il tuo prossimo acquisto) o, nel peggiore dei casi, usare come fermaporta.

Una storica cassetta della Maxell
Una storica cassetta della Maxell

L’arrivo del CD, poi, fu una promessa di eternità. Suono “perfetto”, indistruttibile. Un disco comprato era per sempre. Poi venne il DVD, che portava la qualità “cinema” in salotto, arricchito da quel lussuoso (e quasi mai visto) “contenuto speciale” che giustificava i 20 euro spesi. Il software stesso veniva su un oggetto: floppy disk o ingombranti CD-ROM con libretti d’istruzione così spessi che potevano fungere da arma contundente.

In sintesi, all’epoca si pagava w si riceveva un oggetto fisico. E, per definizione, la proprietà di un oggetto fisico è inviolabile (a meno di furto o incendio). Non dipendeva da server esterni, password, o licenze da rinnovare.

L’inizio della fine: l’avvento del file (fine anni ’90 – primi 2000)

Il primo, devastante, cavallo di Troia fu l’MP3.

La musica, l’arte più facilmente digitalizzabile, fu la prima a cedere. Il file audio compresso e leggero ha avuto la forza dirompente di rendere obsoleti CD e registratori nel giro di pochi anni. L’esplosione di piattaforme come Napster non fu solo un fenomeno di pirateria, ma la prima grande dimostrazione che le persone erano disposte a scambiare il possesso fisico con la comodità del file.

E qui sta l’ironia amara: la generazione che si illudeva di aver abbattuto le major con il file sharing gratuito stava, in realtà, preparando il terreno per la più grande e redditizia trappola che le major stesse avrebbero mai ideato. Si imparò ad amare la musica non come oggetto (il CD), ma come dato (il file). Quando Apple lanciò iTunes e l’iPod, lo fece con l’argomentazione che i file non si dovevano più rubare, ma si potevano “comprare” legalmente.

Il problema, tuttavia, è che l’atto di “comprare” un brano su iTunes (e più tardi film, libri) non era, di fatto, un acquisto vero e proprio. Era una licenza d’uso. Il file risiedeva sul tuo disco fisso, questo è vero, e ti dava ancora una parvenza di controllo; potevi scaricarlo e, finché il disco reggeva, era lì. Ma il supporto fisico era sparito, e con esso, il tuo diritto inequivocabile di proprietà. Inizia l’era dell’intangibilità: la cosa che hai comprato non la puoi toccare.

Il paradigma inversamente proporzionale: più Accesso, meno possesso (anni 2010 – oggi)

La transizione finale è arrivata con il nome rassicurante e metafisico di Cloud.

Se il file sharing aveva messo in crisi l’industria, la “Nuvola” e l’abbonamento sono stati la sua salvezza. È qui che il possesso viene definitivamente sostituito dalla filosofia del Software as a Service (SaaS), applicata a ogni forma di contenuto.

  • Musica (Spotify, Apple Music): Perché spendere 15 euro per un CD quando puoi avere 70 milioni di brani per 9,99 euro al mese? La risposta è ovvia. La comodità ha annientato il desiderio di proprietà.
  • Video (Netflix, Amazon Prime Video): Perché avere centinaia di DVD che accumulano polvere quando puoi avere tutto (o quasi) premendo un pulsante?
  • Software (Adobe Creative Cloud, Microsoft 365): Il “prodotto” (Photoshop, Word) non si compra più. Si noleggia. Se non paghi il canone mensile, lo strumento smette di funzionare.

Questa trappola è stata magistrale. Siamo stati sedotti dal catalogo infinito e dal prezzo apparentemente basso. In realtà, la nostra spesa si è trasformata da un investimento una tantum (capital expenditure, CAPEX) in un costo operativo mensile (operating expenditure, OPEX) perpetuo. Non si tratta più di pagare per un oggetto che si svaluta nel tempo, ma di pagare per un servizio che, se interrotto, ci lascia immediatamente a mani vuote.

Abbiamo barattato la certezza del possesso con la schiavitù dell’accesso.

La tragica intangibilità di ciò che viene pagato

Questo è il punto in cui l’ironia cede il passo all’analisi fredda: il contenuto digitale che avete “comprato” non è vostro.

Questa è la nuda, cruda verità sepolta nelle centinaia di pagine che compongono la EULA (End-User License Agreement), quel malloppo di gergo legale che accettiamo senza leggere premendo “Sì, accetto” per l’ennesima volta.

Un EULA mostrato su una smart TV.

La EULA non è un contratto di vendita; è un contratto di licenza condizionale. La compagnia vi sta dicendo: vi concedo il permesso di accedere al nostro contenuto, sul nostro server, tramite la nostra piattaforma, finché non cambiano i nostri accordi con i detentori dei diritti o finché non violate i nostri termini di servizio.

Il caso del film che scompare (Esempio 1)

Avete pagato 14,99 euro per “acquistare” digitalmente Blade Runner sulla piattaforma X. Pensate che sia nel vostro caveau digitale? Errore. Quando la piattaforma perde i diritti di licenza per quel titolo (magari acquisiti da un servizio concorrente), o decide che quel contenuto non è più redditizio, il film può semplicemente svanire dalla vostra libreria.

  • Il paradosso del possesso: Lo avevate pagato. Non lo avete piratato. E tuttavia, la vostra transazione si rivela una sorta di noleggio a tempo indeterminato, terminabile unilateralmente dal locatore.

Il cimitero dei giochi digitali (Esempio 2)

Nel settore dei videogiochi, la situazione è ancora più drammatica. La vendita di copie fisiche è in calo verticale, sostituita dagli store digitali (Steam, PlayStation Store, Xbox Store). Se pagate 70 euro per un nuovo gioco digitale, state comprando una licenza legata indissolubilmente al vostro account.

  1. Non puoi rivenderlo: Il mercato dell’usato, fondamentale per l’economia dei gamer, è annullato. L’azienda incassa ogni volta il prezzo pieno.
  2. Rischio di ban: Se violate le regole della piattaforma (anche in modo discutibile), l’azienda può bannare il vostro account. E con l’account, spariscono tutti i vostri acquisti, migliaia di euro spesi che evaporano in un istante.
  3. Chiudete i server: Se la piattaforma X decide di chiudere i server per un vecchio gioco che avete “comprato”, quel gioco cessa di esistere o di funzionare correttamente. L’oggetto fisico sarebbe rimasto sulla mensola; l’intangibile muore.

L’NFT e l’Illusione della Certificazione

Il massimo dell’ironia si raggiunge con i token non fungibili (NFT), sbandierati come la “soluzione blockchain al possesso digitale”. L’NFT certifica che siete proprietari di un link a un’immagine. Spesso, l’immagine stessa risiede su un server centralizzato e non sulla blockchain. Voi avete pagato una fortuna per un certificato di proprietà, ma se il server ospitante va offline, o l’immagine viene rimossa, il vostro asset di lusso si riduce a un link rotto e un certificato che attesta la proprietà di… nulla.

In definitiva, se si potesse sintetizzare la nuova economia in uno slogan sarcastico, sarebbe: “Hai pagato per l’accesso, ma l’illusione del possesso è in omaggio.”

Le conseguenze del noleggio a vita

Questo shift non è solo una curiosità legale; è un cambiamento profondo che ha conseguenze dirette sulla nostra libertà e sulla nostra economia personale.

Il Potere del Giardino Recintato (Walled Garden)

Le grandi compagnie tecnologiche hanno creato ecosistemi chiusi (i celebri walled garden). Una volta che compri un e-book sul Kindle, è difficile spostarlo su un altro reader. Se compri un film su iTunes, sarà difficile vederlo su un dispositivo Android (o viceversa). Questa non è una svista di design; è una strategia di lock-in del cliente. Più contenuti acquisti nella loro piattaforma, più sei legato ad essa, e più difficile diventa cambiare fornitore. La vostra “libreria” digitale è, di fatto, un magazzino che l’azienda gestisce e controlla, e voi siete ospiti paganti.

La Fine del Mercato dell’Usato

La morte del possesso fisico ha ucciso anche il mercato della seconda mano. Un CD usato, un videogioco usato, un libro usato: questi oggetti rappresentavano una fonte di reddito per i consumatori e permettevano ai meno abbienti di accedere alla cultura. Nel mondo dell’accesso digitale, questo flusso di denaro è interrotto. Ogni “vendita” è una vendita di una nuova licenza. Le aziende guadagnano sempre e solo loro. Il capitale circola in un circolo vizioso che favorisce la concentrazione della ricchezza nelle mani dei licenziatari.

L’Ansia da Disconnessione e la Falsa Indipendenza

Il possesso fisico offriva indipendenza. Se saltava la luce, potevi ancora leggere il tuo libro o ascoltare il disco con un giradischi a batteria. Oggi, per accedere al contenuto che hai pagato, hai bisogno di una triplice dipendenza:

  1. Una connessione internet stabile (il contenuto è sul Cloud).
  2. Un account attivo e non bannato (la licenza è legata all’ID).
  3. Una carta di credito valida (per rinnovare l’abbonamento alla piattaforma che eroga il servizio).

Questa non è libertà; è l’illusione della libertà, che si dissolve non appena il Wi-Fi smette di funzionare. Abbiamo scambiato l’ingombro di una libreria con il peso di un debito mensile.

Uno sguardo al futuro

Il passaggio dal possesso all’accesso non è una tendenza, è un cambio strutturale del capitalismo moderno. L’azienda non vende più un prodotto, ma un flusso di servizi garantito da un abbonamento. Ed è un modello troppo redditizio per essere abbandonato spontaneamente.

Nonostante ciò, c’è una resistenza culturale. Il ritorno del vinile – un supporto fragile, scomodo, costoso – non è solo una moda hipster. È la reazione nostalgica e tangibile a un mondo di dati freddi. È il desiderio di possedere qualcosa di reale in un’epoca di simulazioni. Lo stesso vale per l’amore per i libri fisici contro gli e-book.

L'intramontabile fascino del disco in vinile.
L’intramontabile fascino del disco in vinile.

È ingenuo pensare che potremo tornare alla purezza del possesso degli anni ’80. L’accesso è troppo comodo. Ma possiamo diventare consumatori più consapevoli.

Il monito finale è questo: la prossima volta che la schermata vi chiederà: “Vuoi comprare questo e-book/film/gioco a… (prezzo)?”, fermatevi un attimo. Non state comprando l’oggetto. State pagando un prezzo premium per un accesso precario e revocabile.

Finché non impareremo a leggere le EULA, finché non chiederemo garanzie reali sul possesso di un bene digitale che abbiamo pagato a prezzo pieno, e finché le leggi non si adatteranno a questa nuova realtà intangibile, continueremo a essere gli affittuari a vita nella casa di qualcun altro.

E la chiave di casa? L’abbiamo lasciata alla compagnia il giorno in cui abbiamo premuto “Sì, accetto”.

  • Senior IT Manager, esperto in cybersecurity ed intelligenza artificiale. Dal 1999 opera nel settore IT dallo sviluppo, alla direzione di progetti, sia in ambito startup che in ambito corporation; negli ultimi anni si è specializzato in sicurezza informatica e nelle tematiche inerenti all’adozione dell’IA nei processi aziendali.
    Fondatore del blog "Caput Mundi", responsabile della gestione sistemistico-tecnico-operativa del sito ed operatore delle pubblicazioni sul blog e rispettivi profili social, coordinatore della sezione "Informatica e Tecnologia".

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