Kissinger stregone triste e consapevole
In una intervista del 1972, tanto famosa, quanto urtante per entrambi, Kissinger disse ad Oriana Fallaci: “Ciò che mi interessa è quello che si può fare col potere”. L’impressione che la giornalista fiorentina ebbe del segretario di Stato americano non poteva essere peggiore, ma riconosceva a questo uomo dai modi educati, ma taglienti, un innegabile fascino: “Era un cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un’invenzione priva di pepe” perché “lui non sparava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava”.

Ecco che la Fallaci cade nella trappola seduttiva di quell’uomo – sicuramente immodesto e vanitoso – che era diventato l’archetipo stesso, quindi studiata costruzione, dell’uomo di potere. Cultura e cinismo. Nella maschera del dr. Stranamore di Kubrick (1964), ancorché il personaggio della fiction sia un ex nazista e nonostante il fatto che spesso si parli di Edward Teller, fisico ungherese, come figura ispiratrice, è innegabile che il capello ondulato del personaggio, gli occhiali a caratterizzare il volto e l’accento tedesco non possono non ricordare lo studioso di Harvard che nel 1957 aveva dato alla stampa il fondamentale Nuclear Weapons and Foreign Policy . Ricordo come, nella mia città, in un grande negozio di oggettistica, abbigliamento ed inutili articoli regalo, rivolto ad una clientela sotto i 25 anni, nel 1976 fosse possibile trovare, tra i vari poster destinati ad adornare le camere di questo pubblico giovane, anche l’immagine di Kissinger, neanche fosse stato un eroe dello Sport o una Rock star. Ad essere onesti Kissinger fu una vera rock star, capace di far diventare “pop” l’arte della diplomazia, da sempre celata all’ombra del potere. Sembrava che con lui fossero cambiati i paradigmi del potere…. Sembrava.
Per oltre sessant’anni, il nome di Henry Kissinger è stato sinonimo della dottrina di politica estera chiamata “realismo”, ma sarebbe troppo riduttivo ingabbiare lo studioso e il diplomatico in questa casella. Egli era qualcosa di differente; per tutta la vita sfuggi a facili categorie.
Kissinger si è dimostrato terreno fertile per storici ed editori. Esistono studi psicoanalitici, dichiarazioni di ex fidanzate, compendi delle sue citazioni e libri di economia sui suoi affari. Due delle valutazioni più significative sono apparse nel 2015: il primo volume della biografia autorizzata di Niall Ferguson, che valutava Kissinger con simpatia da destra, e Kissinger’s Shadow di Greg Grandin, che lo affrontava criticamente da sinistra. Da prospettive opposte, convergevano nel mettere in discussione la profondità del realismo di Kissinger. Nel resoconto di Ferguson, Kissinger si presenta come un giovane che segue ogni moda della politica estera del dopoguerra e si affeziona ripetutamente ai candidati presidenziali sbagliati, finché non ottiene finalmente fortuna con Nixon. Il Kissinger di Grandin, pur parlando il linguaggio dei realisti – “credibilità”, “collegamento”, “equilibrio di potere” – ha una visione della realtà così sprezzante da essere radicalmente relativista. Il nuovo libro di Barry Gewen, The Inevitability of Tragedy (Norton), appartiene alla scuola di Kissingerologia del “né vituperarlo né venerarlo”. “Nessuno ha riflettuto più a fondo sugli affari internazionali”, scrive Gewen, e aggiunge: “Il pensiero di Kissinger è così in contrasto con ciò che gli americani credono o desiderano credere”. Gewen, redattore della New York Times Book Review, fa risalire le decisioni più importanti di Kissinger in politica estera alla sua esperienza di “figlio di Weimar”.

Heinz Kissinger nacque nel 1923 a Fürth, una città della Baviera. La sua famiglia fuggì a New York poco prima della Kristallnacht, stabilendosi a Washington Heights, un quartiere con così tanti immigrati tedeschi da essere talvolta chiamato il Quarto Reich. Fu l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale – ricorda Francesco Perfetti – a dare a Kissinger l’opportunità di usufruire di quello che forse è il più efficace mezzo di mobilità sociale: l’esercito americano. Si laureò con una tesi su Kant, Spengler e Toynbee nella quale cercava di comprendere niente poco di meno che ”il significato della storia”, The meaning of History (l’umiltà non gli appartenne mai). Già qui emergeva una riflessione sul rapporto tra necessità e scelta, sull’equilibrio tra limiti storico-culturali e libertà di azione dei singoli. L’interesse di Kissinger per Spengler e per altri autori che condividevano una visione conflittuale e crepuscolare della storia sarebbe durato a lungo tant’è che, in seguito, consigliò a Richard Nixon la lettura di Il tramonto dell’Occidente. Non a caso uno studioso di politica come Stanley Hoffmann avrebbe potuto scrivere che Kissinger camminava “con il fantasma di Spengler sempre al fianco”. Da questi pensatori, Kissinger elaborò la sua visione del funzionamento della storia. Non era una storia di progresso liberale, o di coscienza di classe, o di cicli di nascita, maturità e declino; piuttosto, era “una serie di eventi privi di significato”, fugacemente plasmati dall’applicazione della volontà umana. Da giovane fante, Kissinger aveva imparato che i vincitori saccheggiavano la storia alla ricerca di analogie con cui arricchire i loro trionfi, mentre i vinti cercavano le cause storiche delle loro sfortune.
Una visione del mondo così profondamente soggettiva potrebbe sembrare sorprendente in Kissinger, ma l’esistenzialismo francese era arrivato ad Harvard e la tesi citava Jean-Paul Sartre. Sia Sartre che Kissinger credevano che la moralità fosse determinata dall’azione. Ma per Sartre l’azione creava la possibilità di una responsabilità individuale e collettiva, mentre per Kissinger l’indeterminatezza morale era una condizione della libertà umana.
Sulla scorta degli studi di Ferguson è possibile asserire che il “realismo” di Kissinger, quello che egli manifestò passando dalle aule universitarie all’arengo della politica, era un’altra faccia, quella più impegnata, del suo “idealismo”; dove il termine “idealista” è utilizzato più nell’accezione filosofica che in quella politica. Kissinger era come “un idealista kantiano” e non già “un idealista wilsoniano”. Qui è necessario ricordare come l’idealismo trascendentale kantiano, è una corrente filosofica che parte dalla critica alla conoscenza, affermando che la realtà che conosciamo è strutturata dalla nostra mente e non esiste indipendentemente da essa. Kant, piuttosto che studiare gli oggetti in sé, analizza le condizioni che rendono possibile la conoscenza, cioè le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto, che strutturano l’esperienza e danno forma al mondo. Al contrario l’idealismo wilsoniano appare qualcosa di più semplice e “piatto”. Altro non è che la teorizzazione che “un mondo migliore è possibile”. Kissinger non poteva aderire a questa seconda scuola. Egli è un uomo che “non appartiene alla razza degli intellettuali che vogliono cambiare il mondo, ma alla razza degli intellettuali che vogliono capirlo”, un politico che “non cerca i mondi ideali ma i mondi possibili”.
Il suo percorso intellettuale, apparentemente tramite analisi più convenzionali, lo porta all’incrocio analitico tra studi storici e relazioni internazionali.
La sua tesi di dottorando (Peace, Legitimicy and the Equilibrium : A Study of the Statemanship of Castlereagh and Metternich, 1954) invece si concentrava sul Congresso di Vienna del 1814-15. Tale lavoro venne poi pubblicato nel suo primo libro intitolato A World Restored (1957), tradotto in italiano come Diplomazia della Restaurazione (1973). In pratica, Kissinger analizzò il Congresso di Vienna prendendolo come modello, storicamente testato con successo, per costruire un ordine internazionale stabile. Potere e legittimità sono le due parole chiave dell’ordine internazionale secondo Kissinger. Il potere serve a mantenere l’equilibrio per bloccare i tentativi di sovversione del sistema. L’equilibrio di potere abbassa la capacità degli Stati di imporre il proprio predominio su tutti gli altri. Da solo però non basta. Servono anche delle regole implicite che definiscano i comportamenti considerati ammissibili da tutte le potenze, che devono quindi vedere i propri interessi fondamentali rispettati. A World Restored mostra la tipologia di studioso che è Kissinger. Non è un teorico delle relazioni internazionali che ragiona per categorie astratte. Studia gli eventi, i processi storici e gli Stati guardando alle loro peculiarità. Cercando però sempre di cogliere le strutture storiche che si ripetono e le analogie tra epoche differenti.

Il politologo americano Graham Allison ha infatti definito Kissinger come il più celebre studioso di storia applicata. Quella disciplina che cerca di chiarire dilemmi presenti studiando i precedenti storici analoghi. Di conseguenza, gli studi di Kissinger dovevano essere utili per agire politicamente. Aveva già una mentalità da statista.
Kissinger è talvolta definito il Metternich americano, in riferimento allo statista austriaco che forgiò la pace post-napoleonica. Ma qui, soppesando le carriere degli uomini di cui scriveva, sottolineava i limiti di Metternich come modello: Ciò che manca a Metternich è la caratteristica che ha permesso allo spirito di trascendere l’impasse in così tante crisi della storia: “la capacità di contemplare un abisso, non con il distacco di uno scienziato, ma come una sfida da superare, o da soccombere nel processo. Gli uomini diventano miti non per ciò che sanno, né per ciò che realizzano, ma per i compiti che si prefiggono”. Kissinger stava lanciando una frecciatina agli scienziati sociali brillanti che lo circondavano, convinti che il confronto mortale della Guerra Fredda potesse essere risolto con modelli empirici e comportamentali, piuttosto che con la spavalderia esistenziale.
Nel 1957, Kissinger pubblicò il libro che lo consacrò come personaggio pubblico, il già citato Nuclear Weapons and Foreign Policy. Sosteneva che l’amministrazione Eisenhower dovesse prepararsi all’uso di armi nucleari tattiche nelle guerre convenzionali. Riservare le armi nucleari solo a scenari apocalittici impedì agli Stati Uniti di rispondere con decisione alle incursioni sovietiche incrementali. Kissinger intendeva che la sua tesi fosse provocatoria e non poteva sapere che i Capi di Stato Maggiore Congiunti di Eisenhower ripetevano al Presidente più o meno la stessa cosa da anni. Ciò non significa che Kissinger si ponesse come rottura con il passato, ma rendeva le precedenti dottrine “più elastiche”.
Alla fine degli anni Cinquanta, Kissinger non dovette più scegliere se essere un accademico, un intellettuale pubblico, un burocrate o un politico. Ogni ambito di attività accresceva il suo valore negli altri. Era un ricercato consulente dei candidati presidenziali; partendo dal presupposto che l’aristocrazia Wasp americana offrisse la via più probabile per il potere, trascorse anni a fare da tutor a Nelson Rockefeller in politica estera.
Kissinger è difficile da collocare tra i pensatori di politica estera del suo tempo. Appartiene forse agli strateghi americani più idiosincratici e brillanti, come George Kennan e Nicholas Spykman?
In genere, viene classificato tra gli “intellettuali della difesa” meno noti, come Hans Speier e Albert Wohlstetter, in verità fondamentali. Questi uomini si muovevano con disinvoltura tra le aule universitarie e i laboratori della RAND Corporation, dove si lamentavano delle proteste studentesche e tenevano allarmanti presentazioni di diapositive sull’apocalisse nucleare.

Ciò che differenziava Kissinger e ne fece un unicum fu il suo vivere la sua dimensione intellettuale senza che essa fosse disgiunta dalla necessità di “sporcarsi” le mani, al di là delle formule accademiche. Il teorico al quale il Nostro fu più vicino, anche umanamente, fu Hans Morghentau, il padre del realismo politico. I due si incontrarono ad Harvard e mantennero un’amicizia professionale che andò a gonfie vele nel corso dei decenni. “Non c’era pensatore che significasse più di Morgenthau per Kissinger”, scrive Gewen. Come Kissinger, Morgenthau era diventato famoso con un popolare libro sulla politica estera, Politics Among Nations (1948). E condivideva la convinzione di Kissinger che la politica estera non potesse essere lasciata a tecnocrati con diagrammi di flusso e statistiche. Ma, a differenza di Kissinger, Morgenthau non era disposto a sacrificare i suoi principi realisti per l’influenza politica. In altri termini se Kissinger era realista, lo era in questo senso: nel dare priorità all’aspetto della gestione dell’immagine in politica estera. Morgenthau, pur essendo anch’egli ossessionato dalla reputazione della potenza di uno stato, credeva che tale reputazione non potesse discostarsi troppo dalla capacità di uno stato di esercitare il proprio potere.
È il caso di dire che l’autore di World Order (2014) non può essere inserito tra i teorici delle relazioni internazionali. Egli non fu un “idealista” come lo furono Keynes, Toynbee e Wilson; tantomeno un neomarxista alla Wallestein; distante era pure dall’Istituzionalismo liberale di Keohane; così come era estraneo alla scuola Costruttivista. Fu realista, ma a modo suo. Se accettava, astrattamente, i paradigmi di Morghentau si distanziava da lui per l’applicazione degli stessi. Sempre nell’alveo della teoria realista era distante dallo strutturalismo di Walz.
Oggettivamente, molto più anziano di lui, era refrattario alle ossessioni di equilibrio, studiate a tavolino nell’ambito del realismo offensivo, da John Mearsheimer. Alla fine della Guerra Fredda, riporta Thomas Meaney sul “New Yorker” (11 maggio 2020) Mearsheimer era così devoto al principio dell’”equilibrio di potere” che propose la sorprendente proposta di consentire la proliferazione nucleare in una Germania unificata e in tutta l’Europa orientale. Kissinger, incapace di guardare oltre l’orizzonte della Guerra Fredda, non riusciva a immaginare altro scopo per la potenza americana se non il perseguimento della supremazia globale. Ben disse Ben Grandin (Kissinger’s Shadow […], 2015) quando ricordò che Kissinger “aveva costruito la sua macchina a moto perpetuo; lo scopo del potere americano era creare una consapevolezza dello scopo americano”.

Nella sua prassi intellettuale, e quindi politica, non vi era spazio per la creazione di modelli teorici, tanto precisi e funzionali negli atenei, quanto destinati a spezzarsi al confronto con la “sordida” realtà dei fatti. Se i soggetti sono – di per sé – razionali, razionale non è il loro agire. Non a caso l’ebreo immigrato, divenuto più americano di molti altri, era convinto che nell’agire politico non si dovesse superare la prospettiva temporale dei 25 anni. Dopo quella data tutto era futurologia. Ecco un’altra spiegazione del suo rifiuto dei modelli a tavolino.
Kissinger, come detto, fu un uomo della Guerra Fredda che non rifiutò mai il principio della “Strategia di contenimento” di George Kennan (NSC 68, 1950), semmai la voleva rendere più elastica. Mai gli sfiorò l’idea che il confronto bipolare potesse vedere un vincitore. In fondo, da profondo conoscitore di Spengler egli era un “declinista”, convinto che il tempo non fosse dalla parte americana e che la distensione fosse il meglio che si potesse ottenere. Quindi Kissinger riconosceva come inevitabile e insopprimibile la sfera d’influenza sovietica in Est Europa.
Per questa ragione visse imbarazzi concettuali quando crollò il mondo comunista ed i paesi est-europei, fecero a gara a gettarsi tra le braccia di Washington. Questo – per la sua sensibilità – alterava l’equilibrio, anche se l’equilibrio era già saltato per contraddizioni endogene, di uno dei competitor. Parimenti, negli ultimi mesi di vita, denunciò un possibile assorbimento dell’Ucraina nell’ordine occidentale, nella convinzione che solo gli attori maggior hanno diritto di parola. Ormai centenario era rimasto vedovo del confronto bipolare, il grande amore della sua vita
Potere e legittimità sono le due parole chiave dell’ordine internazionale secondo Kissinger. Il potere serve a mantenere l’equilibrio per bloccare i tentativi di sovversione del sistema. L’equilibrio di potere abbassa la capacità degli Stati di imporre il proprio predominio su tutti gli altri. Da solo però non basta. Servono anche delle regole implicite che definiscano i comportamenti considerati ammissibili da tutte le potenze, che devono quindi vedere i propri interessi fondamentali rispettati. Posizione nette di “giusto” o “sbagliato” possono essere pericolose tanto quanto il cinismo più becero. L’arte della strategia e della diplomazia è nelle sfumature, nel grigio. Facendo i conti con il mondo così com’è, non come si vorrebbe che fosse. Hope is not a strategy. Purtroppo, non avremo mai più un Harry Kissinger.