Accordo di Pace Israele – Palestina
Arianne Ghersi intervista Andrea Molle
La firma dell’accordo di pace è una reale fine delle ostilità o rischia di essere tempo utile a Hamas per riorganizzarsi?
Il cessate il fuoco in atto rappresenta senza dubbio una riduzione immediata della violenza perchè cessano i bombardamenti su larga scala, si aprono i corridoi umanitari e viene avviato un rilascio scaglionato di ostaggi e detenuti sotto supervisione internazionale. Inoltre, è previsto un parziale riposizionamento delle forze israeliane, in particolare dalle aree più densamente popolate della Striscia di Gaza, per facilitare l’ingresso degli aiuti e il monitoraggio del rispetto dell’intesa.
Tuttavia, sarebbe un errore interpretarlo come la vera fine della guerra. Le dichiarazioni ufficiali e le posture operative di entrambe le parti rivelano che la tregua ha, al momento, una natura prevalentemente tattica. Da un lato, Israele continua a considerare la smilitarizzazione completa di Hamas un obiettivo imprescindibile, e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha chiarito che l’esercito israeliano tornerà a combattere “se necessario”, qualora emergano violazioni o segnali di riarmo. Dall’altro lato, Hamas non ha rinunciato formalmente alla propria agenda di “resistenza armata” e chiaramente considera la tregua un mezzo per ottenere respiro politico, riorganizzare la propria catena di comando e rafforzare la narrativa della sopravvivenza di fronte alla pressione israeliana.
Di conseguenza, a mio avviso, la tregua può essere descritta come una pace sospesa, reale sul terreno ma fragile nella sostanza. Se i passaggi successivi (disarmo, definizione di una governance tecnica per Gaza, presenza di osservatori internazionali e meccanismi credibili di interdizione del riarmo) non verranno implementati con efficacia e trasparenza, l’accordo rischia di trasformarsi in un intervallo strategico più utile a Hamas che alla stabilità regionale. In definitiva, il cessate il fuoco non sancisce la chiusura di un conflitto, ma apre una fase intermedia e incerta, in cui la credibilità dei garanti internazionali, la capacità di controllo sul terreno e la volontà politica di entrambe le parti determineranno se questa tregua potrà evolvere verso una stabilità duratura o se rappresenterà solo la premessa di un nuovo ciclo di violenza.
È stata data notizia della creazione di una base militare qatarina su suolo USA atta alla formazione di militari. Ciò è parte silente dell’accordo?
Le notizie riguardano la creazione di una struttura di addestramento per l’Aeronautica del Qatar all’interno della base statunitense di Mountain Home, in Idaho. È importante chiarire che non si tratta di una “base militare qatarina” su suolo americano, bensì di un programma di formazione congiunto posto interamente sotto giurisdizione e controllo operativo degli Stati Uniti.
Si tratta, in realtà, di una prassi consolidata. Gli Stati Uniti ospitano analoghi programmi di addestramento per diversi alleati e partner strategici, tra cui anche l’Italia, la Germania, il Regno Unito, Singapore e l’Arabia Saudita, nell’ambito di accordi di cooperazione tecnico-militare. L’iniziativa è nata dall’esigenza del Qatar di formare i propri piloti militari all’uso degli F-15QA, velivoli di ultima acquistati da Doha nel quadro di un accordo bilaterale di difesa e sicurezza siglato alcuni anni fa con Washington. Tale cooperazione, che comprende anche componenti logistiche, manutentive e di interoperabilità, risponde alla più ampia strategia americana di rafforzare le capacità difensive dei partner del Golfo e di consolidare un network di interoperabilità a guida statunitense nella regione. Non emergono, peraltro, al momento, elementi pubblici o indizi concreti che colleghino questa iniziativa come clausola occulta del recente accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
Tuttavia, è legittimo osservare che la tempistica della notizia si inserisce in un contesto di riallineamento strategico più ampio. Il Qatar è stato un attore fondamentale nelle mediazioni tra le parti, e Washington ha un interesse evidente a riconoscere e consolidare il ruolo di Doha come interlocutore affidabile, rafforzando contemporaneamente la cooperazione militare e la fiducia reciproca. In questo senso, la decisione può essere letta come un segnale politico di continuità più che come una concessione diretta. Essa contribuisce a definire un nuovo equilibrio regionale, in cui gli Stati del Golfo, e in particolare il Qatar, si configurano come intermediari indispensabili nelle crisi mediorientali, mentre gli Stati Uniti mantengono la cabina di regia strategica e militare.
Quale ruolo si può davvero ipotizzare abbiano ricoperto i Paesi del Golfo in questi due anni di guerra?
Come dicevamo prima, il Qatar ha agito come mediatore chiave, in stretta coordinazione con l’Egitto e sotto la supervisione politica degli Stati Uniti, nel raggiungimento del cessate il fuoco e nella gestione degli scambi di prigionieri e ostaggi. La sua capacità di influenza deriva da oltre un decennio di mediazioni precedenti tra Israele e Hamas, sostenute da una rete di contatti diretti con la leadership del movimento islamista e dal ruolo del Qatar come principale sostenitore finanziario e logistico di Gaza dopo il 2007. Come osservato dall’Arab Center Washington DC, Doha ha saputo posizionarsi come un attore “ponte” tra le esigenze di sicurezza di Israele e le pressioni del mondo arabo, sfruttando la propria immagine di interlocutore pragmatico e la fiducia guadagnata a Washington durante le crisi afghana e siriana.
Diversa invece la postura di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, rimasti più defilati nel negoziato diretto sul fronte Hamas-Israele ma protagonisti del dossier “day after”, ovvero la fase post-bellica legata alla ricostruzione, alla governance e alla sicurezza di Gaza. Entrambi i Paesi mirano a evitare che la Striscia ricada sotto l’influenza iraniana o che diventi nuovamente un santuario per gruppi affiliati ai Fratelli Musulmani. Secondo analisi del Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv, l’inclusione di Riyad e Abu Dhabi in un meccanismo di ricostruzione multilaterale potrebbe contribuire a stabilizzare l’area, a condizione che Hamas venga emarginato politicamente e che l’Autorità Palestinese o una nuova amministrazione tecnico-internazionale ne assumano la gestione. In cambio, Israele e Stati Uniti potrebbero offrire garanzie politiche e tecnologiche — dai corridoi umanitari alla cooperazione energetica — che consolidino i rapporti già in via di normalizzazione e preparino il terreno a un possibile accordo di sicurezza regionale.
A completare il quadro, Egitto e Giordania, che svolgono un ruolo essenziale come stabilizzatori periferici del sistema regionale.
L’Egitto, per prossimità geografica e capacità di controllo sul valico di Rafah, resta un attore insostituibile nella gestione delle frontiere e dei flussi umanitari, oltre a fungere da garante politico per eventuali intese tra Hamas e Autorità Palestinese. Il Cairo ha interesse a mantenere Gaza sotto una forma di controllo multilaterale che impedisca la riemersione di correnti islamiste radicali e salvaguardi la propria sicurezza nel Sinai.
La Giordania, dal canto suo, continua a esercitare un’influenza silenziosa ma costante. Custode dei luoghi santi musulmani a Gerusalemme, Amman è una voce moderata che si fa portavoce delle preoccupazioni palestinesi presso gli interlocutori occidentali, pur mantenendo una cooperazione di sicurezza avanzata con Israele. La monarchia hashemita vede nella stabilità di Gaza e della Cisgiordania una condizione vitale per la propria sicurezza interna, specie alla luce delle tensioni sociali e delle pressioni demografiche legate alla popolazione di origine palestinese.
Infine, tutti gli Stati del Gulf Cooperation Council (GCC) condividono una costante: la ricerca di copertura politica e garanzie di sicurezza da parte di Washington. Senza una cornice statunitense credibile, difficilmente i Paesi del Golfo investiranno capitale politico o risorse finanziarie significative nei pacchetti di ricostruzione e stabilizzazione post-conflitto. Il coordinamento con gli Stati Uniti resta quindi il vero pilastro di legittimazione della loro azione diplomatica: è attraverso di esso che Doha, Riyad, Abu Dhabi e gli altri partner regionali cercano di proiettare influenza nel Levante, mantenendo un fragile equilibrio tra solidarietà araba, almeno di facciata, calcolo geopolitico e deterrenza anti-iraniana.
Quale si può prevedere sia il futuro di Netanyahu sul piano della politica interna?
La tregua non rappresenta, per Benjamin Netanyahu, una via d’uscita dai suoi problemi politici e giudiziari, ma piuttosto una tregua nella tregua: un momento di sospensione utile a guadagnare tempo in un contesto interno sempre più instabile. Il processo per corruzione, frode e abuso di fiducia resta una costante minaccia alla sua sopravvivenza politica, mentre le responsabilità per il collasso dell’intelligence e della sicurezza nazionale emerse dopo il 7 ottobre 2023 continuano a logorare la sua immagine di leader capace di garantire la sicurezza d’Israele.
Sul piano politico, Netanyahu si trova intrappolato in una coalizione eterogenea e profondamente radicalizzata, in cui le forze dell’estrema destra — in primis Itamar Ben Gvir (Sicurezza Nazionale) e Bezalel Smotrich (Finanze) — esercitano una pressione costante per impedire qualsiasi concessione percepita come “cedimento” verso Hamas o verso la comunità internazionale. Ben Gvir, in particolare, ha minacciato più volte di ritirare il sostegno parlamentare al governo qualora la tregua si trasformasse in un percorso politico che porti alla riapertura dei canali con l’Autorità Palestinese o alla presenza di forze internazionali a Gaza. La sua retorica populista, basata sull’idea di un “Israele assediato” che deve rispondere con forza assoluta, condiziona pesantemente la libertà di manovra di Netanyahu, che si trova costretto a bilanciare la necessità diplomatica di tregua con l’ideologia dei propri alleati.
Questa dipendenza dai partiti dell’estrema destra è diventata il punto più vulnerabile del premier: pur avendo consolidato nel tempo una reputazione di abilissimo tattico, Netanyahu oggi appare ostaggio della sua stessa coalizione, incapace di aprirsi a soluzioni pragmatiche senza rischiare la crisi di governo. Al tempo stesso, il premier utilizza la minaccia della caduta del governo come strumento di ricatto politico verso i suoi partner, in un gioco di equilibrio in cui ogni concessione è al tempo stesso una sfida alla sopravvivenza politica.
I sondaggi più recenti mostrano una progressiva erosione del consenso del Likud e una disaffezione crescente anche tra gli elettori moderati della destra israeliana, molti dei quali ritengono Ben Gvir e Smotrich una zavorra populista che impedisce la gestione responsabile del conflitto. In questo contesto, Netanyahu si mantiene al potere grazie a un fragile compromesso: presentare la tregua come una vittoria tattica, rivendicando il rilascio degli ostaggi e la neutralizzazione temporanea della minaccia di Hamas, mentre mantiene una retorica muscolare per rassicurare i falchi della coalizione.
In sintesi, Netanyahu resta resiliente, ma sempre più isolato. La tregua di Gaza è per lui anche un test di sopravvivenza politica: se riuscirà a trasformarla in un punto di forza — dimostrando di poter garantire sicurezza senza “cedere” — potrà forse rinviare lo scontro interno. Ma se la tregua si incrinerà o verrà percepita come un segno di debolezza, sarà proprio Ben Gvir e il fronte ultranazionalista a decretarne la fine politica, spingendo Israele verso nuove elezioni o verso una crisi istituzionale che potrebbe rimescolare completamente gli equilibri della destra israeliana.
Libere considerazioni
Il valore reale del cessate il fuoco dipenderà dalla capacità di costruire meccanismi di controllo credibili e verificabili sui flussi di armi e sui circuiti finanziari che alimentano Hamas. Senza un sistema di interdizione concreto e multilaterale, la tregua rischia di ridursi a una pausa tattica, utile al gruppo islamista per riorganizzarsi. La lezione delle precedenti tregue israelo-palestinesi è chiara: ogni cessazione temporanea delle ostilità priva di una componente coercitiva o di monitoraggio esterno si è trasformata in una fase di riarmo e radicalizzazione.
Sul piano regionale, l’attuale equilibrio si regge su un fragile compromesso di mediazioni parallele, dove Stati Uniti, Egitto e Qatar coordinano le fasi immediate, mentre Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti restano potenziali protagonisti della ricostruzione e stabilizzazione post-conflitto. Questo approccio consortile — pragmatico ma complesso — mira a ridurre la penetrazione iraniana a Gaza e a creare una cornice di sicurezza condivisa che vada oltre il mero cessate il fuoco.
Tuttavia, la governance del day after resta incerta: chi controllerà il territorio, chi garantirà la sicurezza e chi coordinerà gli aiuti sono questioni ancora aperte. In questo contesto, si profila una possibile finestra di opportunità per l’Europa e per l’Italia. Roma, grazie ai suoi solidi rapporti con Israele, Egitto e Qatar, e alla reputazione di attore equilibrato e affidabile, può giocare un ruolo significativo nella fase di stabilizzazione civile e militare. L’Italia dispone infatti di una lunga esperienza nel peacekeeping e nel peace enforcement maturata in Libano (UNIFIL), in Iraq, nei Balcani e nel Sahel, oltre che di capacità militari dual-use — forze armate impiegabili tanto per sicurezza quanto per supporto umanitario e infrastrutturale.
Un’ipotesi già discussa in ambienti diplomatici europei è quella di una missione internazionale di sicurezza e ricostruzione a Gaza, sul modello delle operazioni “Chapter VI½” delle Nazioni Unite: forze limitate, a mandato non offensivo, ma con capacità di monitoraggio, sorveglianza e assistenza tecnica alla sicurezza locale. In tale scenario, le Forze Armate italiane — in particolare i Carabinieri e l’Esercito — potrebbero fornire competenze decisive nella ricostruzione istituzionale, nella formazione delle forze di polizia palestinesi e nella protezione degli assetti civili e logistici. Un impegno di questo tipo non implicherebbe un ruolo di combattimento, ma consoliderebbe la presenza strategica dell’Italia nel Mediterraneo allargato, rafforzando la propria immagine di fornitore di sicurezza e stabilità. Allo stesso tempo, consentirebbe di presidiare, insieme agli alleati europei e atlantici, un quadrante cruciale per la sicurezza energetica e marittima del continente.
In sintesi, il cessate il fuoco è solo l’inizio di una fase più complessa: quella in cui la credibilità degli attori regionali e la capacità europea di proiettare stabilità determineranno se Gaza potrà uscire dal ciclo di guerra e isolamento. Per l’Italia, si tratta non solo di un dovere diplomatico, ma di una opportunità strategica per riaffermare la propria influenza nel Mediterraneo, con strumenti civili e militari integrati. In prospettiva, un impegno visibile dell’Italia nel post-conflict management di Gaza rafforzerebbe la sua credibilità nel Mediterraneo e riaffermerebbe il principio, caro alla diplomazia italiana, secondo cui la sicurezza del Sud Europa e quella del Medio Oriente sono interdipendenti.