In marcia verso il nuovo mondo, senza l’Europa
Come gli Usa stanno “ristrutturando” l’Ue e riorganizzando la loro presenza sul piano globale.
L’analisi del professor Gagliano (Cestudec)
Il conflitto russo-ucraino ha definitivamente scombussolato gli equilibri mondiali, già destabilizzati dalla fine della cosiddetta Guerra fredda e dalla globalizzazione. La Cina è in forte ascesa mentre la Russia ha mostrato di non essere più quel gigante politico e militare che si pensava; l’Unione europea si è rivelata essere una costruzione inconsistente sul piano internazionale ed è economicamente in declino. Insomma è evidente che tutto sta cambiando ma ancora a noi comuni mortali non è ben chiaro in quale mondo ci ritroveremo a vivere. Per cercare di capirci qualcosa abbiamo interpellato il professor Giuseppe Gagliano, studioso di politica internazionale e analista, fondatore del Cento studi strategici Carlo de Cristoforis e studioso delle dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l’enfasi sulla dimensione della intelligence e della geopolitica, sulle orme di Christian Harbulot fondatore e direttore della Scuola di guerra economica (Ege). Gagliano collabora tra l’altro con il periodico di geopolitica e analisi militari Briefing.
Professore, abbiamo la netta sensazione che nella guerra tra Russia e Ucraina al momento uno sconfitto certo sia l’Europa, che non è riuscita a sostenere efficacemente l’Ucraina dal punto di vista militare e neppure si è ritagliata un ruolo di mediatrice. C’è l’eventualità che l’Unione europea si “smonti” sotto il peso delle sue contraddizioni, magari con un aiutino da parte di Washington, che non ha mai visto di buon occhio una Europa unita?
Se uno guarda la partita con gli occhi di Washington, il punto non è “distruggere” l’Unione europea come progetto storico ma è più prosaico: impedire che l’Europa diventi un soggetto strategico autonomo capace di negoziare, commerciare e fare politica di potenza con una propria agenda, soprattutto quando questa agenda potrebbe includere – oggi o domani – una normalizzazione con Mosca e un rapporto meno dipendente dagli Stati Uniti.
Qui sta la chiave: la guerra non è stata “inventata” per questo, ma può essere stata sfruttata per riorganizzare gerarchie e fedeltà dentro il continente. La dinamica è evidente: l’Est europeo, per ragioni storiche e geografiche, percepisce la Russia come minaccia esistenziale e dunque tende a considerare la protezione americana non come opzione ma come destino.
Se questa sensibilità diventa egemone, l’Europa si “sposta” verso un asse atlantico-orientale: più NATO, meno autonomia; più deterrenza, meno diplomazia; più spesa, meno politica industriale coordinata.
E’ per questo che vediamo una attenzione particolare di Trump per la Polonia e altri paesi ad Est? Quasi volesse allontanarli dall’abbraccio franco-tedesco
L’idea di “staccare” Polonia, Romania, Baltici e parte dei Balcani dall’influenza nord-europea è quasi superata: si sono già riallineati da tempo su Washington, perché la loro sicurezza è percepita come non negoziabile. E quando la sicurezza diventa religione civile, il resto – mercato unico, regole fiscali, compromessi franco-tedeschi – passa in secondo piano. Il duro confronto tra leader europei, inclusi gli attriti con Berlino, può inserirsi in questo quadro non come regia unica, ma come effetto collaterale: una Europa più divisa è una Europa più gestibile.
E in quel contesto l’Italia è appetibile perché è grande abbastanza da pesare e fragile abbastanza da essere tirata da più parti.
Tedeschi, francesi e von der Leyen stanno alimentando la paura di vedere i russi marciare fino a Parigi. C’è veramente un “pericolo russo” o è un escamotage per far digerire ai contribuenti la pillola del riarmo?
Qui bisogna evitare due trappole: la prima è quella del “è tutto finto”, la seconda è quella del “è tutto vero”. Nella politica europea spesso è tutto vero e tutto utile. È vero che la Russia, dopo anni di guerra, ha mostrato limiti che molti non immaginavano. Ma è altrettanto vero che una Russia in economia di guerra può rigenerare capacità militari più rapidamente di quanto suggeriscano certe analisi.
La domanda non è “Mosca può invadere domani Berlino?”, che è caricaturale. Piuttosto ci si deve chiedere: può minacciare, destabilizzare, logorare i confini orientali, il Baltico, il Mar Nero, il fianco artico e costringere l’Europa a vivere in perenne stato di emergenza? Sì, può. E questo basta a orientare bilanci, industrie, opinioni pubbliche.
C’è anche l’eventualità che dopo il plateale autogol del Green deal che sta portando ad una massiccia deindustrializzazione e al suicidio del settore automobilistico, soprattutto tedesco, il riarmo sia un escamotage per salvare l’economia franco-tedesca, riorientando la produzione sul militare
Il riarmo come politica industriale mascherata è una eventualità. In un continente che ha fatto della regolazione e della transizione energetica una sorta di catechismo, la realtà ha presentato il conto: energia cara, catene del valore fragili, concorrenza cinese sull’auto e sulle tecnologie, perdita di competitività in settori chiave. In questo contesto, la difesa diventa l’ultima grande “industria legittima” su cui spendere senza essere accusati di tradire il clima, il sociale, i vincoli di bilancio.
Non è un caso che a Bruxelles si parli esplicitamente di piani di rafforzamento della prontezza militare e di grandi pacchetti finanziari, con una retorica di urgenza continentale. E non è un caso che, parallelamente, si cerchi di “educare” i contribuenti: se hai paura, paghi; se paghi, non fai troppe domande.
Si vocifera di un piano Usa per un G5 cui partecipano Stati Uniti, Cina, India, Russia e Giappone senza neppure un paese europeo…
Qui entriamo in quella zona in cui le élite giocano con le parole per spostare il baricentro della realtà. L’idea che a Washington circoli una proposta tipo “Core 5” è stata riportata da più fonti e commentata come ipotesi discussa in ambienti politici e mediatici. Attenzione: “discussa” non significa “decisa”. Ma anche solo discuterne ha una funzione: mandare un messaggio.
E il messaggio è questo: l’Europa non è più considerata un perno automatico della governance globale. Può essere trattata come teatro secondario, utile ma non indispensabile. Questa impostazione si riflette anche nella lettura che diversi analisti hanno dato del documento strategico pubblicato dalla Casa Bianca nel dicembre 2025, dove il tono verso l’Europa appare più duro, più paternalistico e meno “alleato per definizione”.
Se si arrivasse davvero ad un G5 operativo, non sarebbe un certificato di morte dell’Unione?
Sarebbe soprattutto la certificazione di una verità già presente: senza potenza militare autonoma, senza energia competitiva, senza tecnologia sovrana, l’Europa non è un soggetto, è un mercato. E i mercati si regolano, non si consultano.
In effetti è da diverso tempo che l’America sta dicendo all’Europa, senza esito, di cambiare registro e di assumersi maggiori responsabilità. Questo cambio di atteggiamento è il segno che gli Usa stanno per gettare la spugna o è l’inizio di una “ristrutturazione” della loro egemonia?
Gli Stati Uniti non stanno abbandonando l’Europa. Stanno facendo una cosa diversa, più sottile: stanno ridisegnando i termini del contratto. Il vecchio contratto era: protezione americana in cambio di allineamento politico generale.
Il nuovo contratto somiglia a: protezione condizionata in cambio di tre cose molto concrete: spesa militare europea che alleggerisca il peso americano e soprattutto crei interoperabilità e dipendenza tecnologica; allineamento geoeconomico contro la Cina con controlli sull’export, restrizioni tecnologiche e disciplina sugli investimenti; riduzione delle ambizioni autonome, ovvero meno “terza via” europea, più coordinamento sotto regia americana.
In effetti essere una sorta di “terza via” sembrava essere un modo per l’Unione di poter contare qualcosa sul piano internazionale.
Il paradosso è che l’Europa, proclamando “autonomia strategica”, spesso ha prodotto l’opposto, ovvero frammentazione: riarmo nazionale, industrie nazionali, priorità nazionali; col risultato di avere più spesa ma non necessariamente più potenza. Questo è il sogno di qualunque potenza guida: un alleato che spende, ma non diventa indipendente.
L’ America secondo molti analisti è in forte crisi: divisa al suo interno, economicamente in difficoltà e con gravi problemi sociali. L’attivismo di Donald Trump, col suo “America first” è il colpo di coda di un impero in declino o una manovra per tornare veramente in auge?
Gli Stati Uniti hanno problemi interni seri: forte polarizzazione, disuguaglianze, infrastrutture carenti, debito, tensioni sociali… Ma attenzione al riflesso europeo più comune: scambiare il rumore interno per impotenza esterna. Gli imperi spesso litigano in casa mentre vincono fuori. La questione vera è un’altra: hanno le risorse per reggere la competizione sistemica con la Cina mantenendo contemporaneamente la gestione di Russia, Medio Oriente e stabilità finanziaria globale?
La risposta è: possono farlo solo cambiando metodo. E infatti il metodo che emerge è quello della selezione: meno missioni infinite, più leva economica e tecnologica, più accordi anche cinici, più pressione sugli alleati perché si facciano carico del proprio quartiere. Il documento strategico pubblicato a dicembre 2025 va letto così: non come l’annuncio di una ritirata, ma come manuale di ristrutturazione della primazia americana in un mondo più duro e meno ideologico.
E qui veniamo alla questione: è un “colpo di coda”? Io direi di no. È semmai la forma contemporanea dell’egemonia: non più “guidare il mondo” con la retorica, ma impedire agli altri di organizzare il mondo senza di te».



