PolitologiaScienze Sociali e Umanistiche

Come vincere la Seconda Guerra Fredda

4.7/5 - (439 votes)

La Seconda Guerra Fredda è già in pieno svolgimento e i protagonisti, va da sé, sono l’Occidente capitanato dagli Stati Uniti d’America e la Cina.

A differenza della prima Guerra Fredda, tuttavia, vi è la speranza che tale contesa non sarà uno scontro all’ultimo sangue come fu la contesa con l’Unione Sovietica, in cui uno dei due combattenti per forza dovette finire annientato (il fatto che non si sia arrivati al conflitto armato non toglie che la vittoria della Civiltà Occidentale sia stata totale). Non solo: molti sperano che la sfida non degenererà in una guerra aperta come avvenne con il Terzo Reich hitleriano. Questo perché la Cina odierna non esprime un’ideologia assoluta, una sorta di religione laica come erano il nazismo ed il comunismo.

Al contrario, Pechino desidera prendere il comando del capitalismo mondiale, arricchirsi e dettare le regole del commercio internazionale. Tutte cose che collidono con una guerra aperta. Certo, il capitalismo come concepito dalla leadership sinica è un “capitalismo di Stato” a partito unico, quindi ontologicamente schiavista. Si può dire quindi che la Cina, a modo suo, intenda conquistare il mondo pur senza sinizzarlo. Ma la sostanza non cambia: la Città Proibita guida un impero che da millenni è autoreferenziale e si ritiene superiore al resto del mondo (spesso a ragione): il fatto che fino ad oggi abbia preferito una conquista “morbida” non deve farci abbassare la guardia contro un’eventuale assalto “duro”.

Ciò non significa che la Seconda Guerra Fredda non sarà (o meglio: che non sia già) dura con tanto di conflitti armati a livello regionale e piccole guerre per procura in posti sperduti, nei quali USA e Cina sosterranno i propri campioni locali. La Cina resta una dittatura (anche perché realisticamente impossibilitata ad una democrazia funzionale). Questo di per sé la pone su di un piano psicologico e culturale a noi estraneo ed inevitabilmente ostile all’Occidente.

USA e Cina. La superpotenza consolidata e quella in pectore. Due giganti in cui forze e debolezze tendono a bilanciarsi sempre più, dopo un lungo periodo storico in cui la supremazia americana era assoluta. Due identità statali fortissime, in cui l’interesse nazionale ha la priorità su tutto ed in cui le rispettive leadership vengono da una scuola geopolitica di prim’ordine, pur con notevoli differenze etno-filosofiche, cose che complica ancor di più la comprensione reciproca.

Oggi Pechino guida la seconda economia mondiale che, a causa della totale mancanza di trasparenza, oggi non si capisce con chiarezza se sia ancora in crescita o sia entrata in recessione. Di sicuro manca di un sufficiente mercato interno per i suoi prodotti. Ciò appare paradossale in un Paese avente 1 miliardo e 386 milioni di abitanti, ma non lo è. Causa di ciò è la terribile sperequazione economica interna al gigante orientale, in cui 200/300 milioni di persone sono benestanti o persino molto ricche, mentre il resto non è andato molto oltre il livello del periodo maoista. Per tale ragione la Cina necessita di mercati stranieri in cui esportare. E poiché le esportazioni cinesi sono per lo più a bassa tecnologia (malgrado oggettivi passi avanti anche nell’alta tecnologia) come rendere più competitive le proprie merci? Convincendo il Governi dei Paesi “deboli”, per esempio africani, ad attuare accordi commerciali. Da qui nasce il primo contrasto con l’Occidente, che non ha certo il desiderio di vedere mezza Africa e mezzo Sudamerica diventare un protettorato di Pechino.

Mappa geografica con evidenza della preminenza degli scambi commerciali di ciascun Paese verso Cina o Stati Uniti.
Mappa geografica con evidenza della preminenza degli scambi commerciali di ciascun Paese verso Cina o Stati Uniti.

Alla guerra commerciale si aggiunge il desiderio espansionista territoriale cinese. Il Dragone non fa mistero di voler allargare la sua sovranità su tutto il Mar Cinese Meridionale, per accaparrarsi i giacimenti petroliferi là dislocati ed assurgere a potenza marittima (cosa che attualmente non è, almeno di fronte alla potenza talassocratica statunitense, erede e continuazione di quella britannica). A questo si aggiunge il nodo Taiwan, eterno sogno di Pechino di voler invadere quella che, secondo la Città Proibita, non solo è la “provincia ribelle”, ma ha anche la colpa di mostrare al mondo che i cinesi possono gestire un regime democratico (ad Hong Kong la questione è stata quasi risolta con un’abile e progressiva repressione). Altri desideri sono l’acquisizione di parti dell’estremo oriente russo (la Siberia è per lo più spopolata e facilmente colonizzabile dalle masse cinesi, specie dopo che le mattane di Putin hanno indebolito la Russia) e la “vassallizzazione” di Birmania, Pakistan ed Asia Centrale. Con la prima Pechino acquisirebbe de facto uno sbocco sull’Oceano Indiano, con il secondo ha già quasi circondato il nemico strategico indiano e con la terza avrebbe il controllo di enormi riserve petrolifere.

Alleato naturale dei cinesi, sebbene privo di guida centralizzata, è l’islam. Pechino sa bene che la debolezza maggiore dell’Europa è l’immigrazione musulmana, che già ha reso interi quartieri di molte città europee luoghi di guerriglia. Inoltre, l’endemica instabilità del mondo maomettano costringe gli USA a logoranti interventi per mantenere la situazione sotto controllo. Questo malgrado la Cina abbia al suo interno una discreta minoranza islamica e che la leadership di Pechino, erede di quella imperiale, mal sopporti questa particolare presenza antropica, il cui modo di vedere il mondo è incompatibile con quello della civiltà dell’Impero di Mezzo. Pertanto, è assai probabile che, nei prossimi decenni, la Cina terrà con l’islam una condotta simile a quella che il cardinale Richelieu adottò con i protestanti durante le guerre di religione europee: sostenere quelli stranieri per indebolire i nemici della Francia e convertire, espellere o massacrare quelli interni per aumentare la coesione nazionale francese. La storia, del resto, dimostra che i vari Governi cinesi succedutisi in duemila anni non hanno mai avuto problemi ad attuare eccidi di massa.

Diffusione geografica dell'Islam nel mondo.
Diffusione geografica dell’Islam nel mondo.

Di fronte a tutto questo gli USA non sono certo rimasti a guardare. Trump nel suo primo mandato iniziò a tutelare i propri produttori (i quali devono rispettare norme ambientali e diritti dei lavoratori come si fa in un Paese civile), ponendo così la Cina di fronte all’incubo della fine della sua concorrenza sleale a buon mercato. La politica dei dazi trumpiani è continuata sotto Biden ed è stata ripresa con maggior vigore col ritorno alla Casa Bianca di “The Donald”. Inoltre, negli ultimi decenni gli USA hanno perfezionato la loro alleanza di contenimento avviata da Clinton, che circonda la Cina di medie potenze (dal Giappone al Vietnam), aventi tutte per l’espansionismo cinese un atavico terrore ben più antico degli Stati Uniti stessi.

Questa alleanza ha tuttavia due punti deboli. Il primo è di natura commerciale, poiché le economie di tutte le Nazioni dell’Estremo Oriente dipendono moltissimo dagli scambi con la Cina. Non è detto perciò che in caso di necessità il fronte comune debba necessariamente restare compatto. La seconda debolezza è prettamente militare. I due Stati più esposti ad un potenziale confronto bellico con Pechino sono Taiwan e Vietnam. Entrambi posseggono forze armate di prim’ordine e molto motivate, ma che in uno scontro totale convenzionale contro la Cina sarebbero destinati alla sconfitta, pur dopo aver inflitto perdite agghiaccianti al Dragone giallo. A salvare la Nazione attaccata (difficilmente Pechino rischierebbe una doppia avventura) sarebbe solo l’intervento dell’alleanza. In ultima analisi l’intervento degli Stati Uniti, verso i quali i cinesi hanno un sano timore militare. Ma gli USA interverrebbero? Oggi sicuramente sì, tuttavia la volubilità delle democrazie è ben nota. Chi garantisce che un giorno alla Casa Bianca non subentri un novello Carter, per il quale evitare di sostenere medie Nazioni non democratiche (o non del tutto democratiche) sarà più importante che contrastare l’imperialismo sinico? Da questo punto di vista la leadership di Pechino deve aspettare il momento giusto e tenersi pronta a dare un colpo nella direzione voluta, avendo solo cura di cogliere la stagione politica americana adatta.

Quale è dunque la chiave con cui gli USA possono castrare sul nascere eventuali avventurismi cinesi? In sostanza un allargamento delle alleanze, nello spirito di quello che fu il balance of power dei britannici, eterni maestri di geopolitica. Dal 1700 al 1945 la Gran Bretagna costruì e conservò la sua leadership, divenendo a tutti gli effetti la prima superpotenza mondiale. Ma la vicinanza dell’Inghilterra all’Europa fece sì che le minacce maggiori arrivassero sempre da quella direzione. Pertanto, Londra fu abilissima ad impedire che sul continente si affermasse una singola potenza egemone, la quale dopo aver conquistato l’Europa avrebbe inevitabilmente rivolto il suo sguardo alla Gran Bretagna. Gli inglesi quindi ricorrentemente si allearono alla seconda Nazione continentale più forte e con questa combatterono la prima, onde bloccarne l’espansione. In tal modo i britannici prima sconfissero la Spagna, poi la Francia ed infine la Germania. Con la Seconda Guerra Mondiale lo scettro di leader dell’Occidente è passato agli Stati Uniti, niente di meno che una Nazione sorella del Regno Unito. Questo ha reso la decadenza britannica più dolce e ne ha mantenuta intatta la sicurezza internazionale.

Con la Guerra Fredda gli USA si sono trovati di fronte al gigante sovietico, in cui il nazionalismo russo si miscelava all’ideologia comunista. Nei primi anni ’70 del Novecento, con il trauma vietnamita in fase di conclusione, era chiaro che il blocco marxista avrebbe avuto per qualche anno gioco facile ad espandersi nel Terzo Mondo. Il popolo americano per un po’ non avrebbe voluto sentir parlare di interventi all’estero e gli eserciti europei erano poca cosa. In breve, la Guerra Fredda rischiava di prendere una brutta piega.

Richard Nixon
Richard Nixon

Tuttavia, per fortuna del mondo libero, in quel momento alla Casa Bianca arrivò Richard Nixon. Nixon, al netto di una personalità ombrosa, conosceva la Storia, pertanto manovrò per bilanciare l’espansione militare e geopolitica sovietica, aprendo a Cina, Russia e Cina, che, detto in breve, si sono sempre odiate. La comune fede comunista garantì dieci anni di alleanza, ma le radici profonde etno-imperiali riemersero presto. Cogliendo la palla al balzo Nixon si alleò informalmente con Pechino in funzione antisovietica. Questo pose l’URSS in una situazione impossibile: qualunque confronto militare con la NATO avrebbe fatto nascere un secondo fronte contro Pechino e, al tempo stesso, un’eventuale guerra contro la Cina l’avrebbe costretta a sguarnire l’Europa Orientale. L’unica opzione rimasta ai sovietici era un attacco nucleare contro i suoi nemici (nell’ottobre del ‘69 i russi andarono ad un pelo dal nuclearizzare la Cina, ma Nixon li fermò), ma questa era una “non opzione”, poiché probabilmente avrebbe significato la fine del mondo. E al Cremlino, ieri come oggi, hanno sempre seduto leader spietati, ma anche intelligenti. Pertanto, Nixon, con un magistrale colpo diplomatico di scuola britannica, aveva per metà vinto la Guerra Fredda. Reagan avrebbe completato l’opera.

Oggi lo scenario è cambiato. Per colpa di Putin la Russia è decaduta a quasi vassallo della Cina, pur conservando una capacità militare ed atomica di tutto rispetto. Di fronte agli Stati Uniti non vi è più il comunismo sovietico, ma il neoimperialismo confuciano e statalista cinese. Abbiamo visto quali sono i punti deboli della pur corretta strategia americana contro Pechino. Se Washington vuole bloccare definitivamente le velleità mondiali del suo avversario dovrà attuare una riedizione della politica britannica del balance of power, con tanto di machiavellismo diplomatico in stile Nixon.

Il delicato equilibrio di potere tra USA e Cina.
Il delicato equilibrio di potere tra USA e Cina.

E gli USA quale strategia dovranno perseguire? Quella del sano vecchio “Contenimento”, in attesa che le contraddizioni interne alla Cina le facciano fare una fine simile a quella che fece l’URSS. L’India ha incandescenti questioni di confine con la Cina e teme non poco il suo espansionismo soft verso la Birmania e l’amicizia sino-pakistana (ricordate il suddetto rapporto Cina-islam?). Pertanto, se gli Stati Uniti intensificheranno le loro relazioni con New Delhi, anche a costo di perdere la cosiddetta amicizia col Pakistan (Paese prima o poi destinato al collasso), l’alleanza con l’India varrà più dell’oro. Questo incastrerebbe per lungo tempo la Cina dentro i suoi confini (che comunque non sono piccoli!) e metterebbe in sicurezza tanto l’Occidente quanto i suoi alleati: anche a Pechino la leadership è tutt’altro che sciocca, pertanto mai oserebbe un’avventura avendo di fronte un’alleanza enormemente più forte di lei.

Contemporaneamente l’Occidente deve riarmarsi, processo già avviato grazie alle mattane di Zar Vladimir, e perseguire una politica di reindustrializzazione, onde far cessare la propria dipendenza dalle importazioni a “basso” costo provenienti dalla Cina. Va da sé che, di fronte alla potenza industriale del Dragone giallo, tale processo dovrà essere perseguito sincronizzando le energie di tutto l’Occidente, quasi trasformandolo in una “confederazione geopolitica ed economica”.

Tanto per capirci: meno “Vie della Seta” e più integrazione tra le due sponde dell’Atlantico.

  • Laureato in Storia, autore di saggi storici e di svariati articoli di storia ed analisi geopolitica.
    Fondatore del blog "Caput Mundi", coordinatore sezione "Storia" e "Geopolitica" russa ed anglosassone.

    Visualizza tutti gli articoli
Ti è piaciuto questo articolo? Apprezzi i contenuti di "Caput Mundi"? Allora sostienici!
Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *